IL SILENZIO E’ UNA RISPOSTA
Caro Papillon,
mi è venuta in mente la frase di uno scrittore ungherese che amo molto, Sandor Márai, che in un libro scrisse:
“Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito, ho anche capito che il silenzio è una risposta, esattamente come la parola e la scrittura. A volte neanche la meno rischiosa”, e per questo oggi vorrei raccontarti una storia.
La mattina del 25 maggio 2020, Derek Chauvin si prepara ed esce di casa, entra in macchina per andare al lavoro. Nel tragitto si ferma al solito posto dove ordina il suo caffè nero bollente, una brodaglia senza la quale, dice, non riesce ad affrontare la giornata. Ha scelto la carriera di ufficiale di polizia, non si ricorda perché. Ma non è più importante, ormai, alla sua età, dice, non ha più tempo da perdere a farsi strane domande.
Minneapolis è una città dura, lo sa bene lui, che ogni giorno è costretto ad affrontare la feccia della società, per difendere i suoi compatrioti.
“Oh say you can seeee…” Quando fa questi pensieri gli viene in mente l’inno del suo grande paese, soprattutto quella frase: “the land of the free and the home of the brave”, la terra dei liberi e la casa dei coraggiosi.
La mattina del 25 maggio 2020, anche George Floyd esce di casa.
Il resto di questa storia fa parte della memoria collettiva, compreso il fatto che ciò che è successo in quella data ha scatenato proteste violentissime, durate per giorni, per mesi, che in piena pandemia hanno sconvolto il globo terracqueo. E anche noi qui in Italia a dare il nostro supporto, a gridare I CAN’T BREATH! Nessuno poteva respirare.
E invece, abbiamo respirato tutti, anche se alcuni non abbastanza da ossigenare il cervello, come purtroppo capita.
Ma perché ora, a due anni di distanza, mi viene in mente questa storia?
È la mattina del 29 luglio 2022, e questa volta ad uscire di casa è Alika Ogorchukwu, che è un nome troppo difficile da imparare per i titoli dei giornali.
Alika Ogorchukwu è nigeriano ed è venuto a stare in Italia. Fa l’ambulante, a dimostrazione delle grandi opportunità che si hanno quando si viene a vivere nella parte “giusta” del mondo, in un paese occidentale, sviluppato, esportatore di democrazia, come il nostro.
Quello stesso giorno, un italiano a cui sono stati dati alla nascita ben 3 nomi perfettamente pronunciabili, Filippo Claudio Giuseppe, esce di casa. Nonostante la stirpe italica, a conti fatti, neanche a lui è stato dato quello di cui aveva bisogno, anzi forse col tempo gli è stato tolto qualcosa. Eh sì, perché se decidi di picchiare a morte una persona, di buttarla a terra e strangolarla, non sei vittima di un raptus che potrebbe capitare a tutti. Bisognerebbe proprio avere il coraggio di indagare a fondo tutti i piccoli indizi quotidiani che, curati, avrebbero permesso di evitare quello che è successo.
Coraggio, che bella parola.
Sono andata a cercare su internet, per una mia curiosità malsana, quanto tempo ci vuole a morire per strangolamento. Ho scoperto che il tempo di asfissia può variare dai 5 ai 7 minuti.
Allora quello che non riesco a smettere di chiedermi è: non sono tanti cinque minuti, non sono un’eternità cinque minuti, soprattutto per guardare morire un uomo?
Caro Papillon, questa è la parte peggiore, per me. Quegli spettatori che, come al Colosseo, osservavano una lotta tra gladiatori, un po’ divertiti, un po’ inorriditi.
Quegli spettatori a cui, dicono, è mancato il coraggio di salvare la vita di una persona.
Allora mi chiedo se posso fare qualcosa per scacciare questa melma di ipocrisia che sento intorno, e per trovare una morale a questa storia. E l’unica cosa che mi viene da dire è che, in quel caso, non c’era bisogno di coraggio.
Quello di cui c’era bisogno, e ci sarà sempre bisogno, è allenare e dare spazio a quel processo automatico, quella reazione inconscia dettata da qualcosa nel nostro cervello e nella nostra pancia, quel meccanismo che ci permette di fare senza pensare e che ci mantiene in vita, quel movimento spontaneo, giusto per natura, molto simile alla respirazione.
Ilaria Serpi
Mi mancano le parole, mi manca il respiro. Ti lascio il mio silenzio ma vorrei gridare perché davanti a tanto orrore non si può tacere.
Ancora una volta cara Ilaria hai saputo cogliere e scrivere quello che fa male davvero. Aldilà dei titoli e dei giudizi, delle ipocrisie e dei virgolettati. E leggerlo e riconoscerlo fa male ma anche bene, ci si sente meno soli.