DONNA, VITA, LIBERTÀ*
Caro Papillon
Ti scrivo perché nel mio paese non ho voce e la notte sogno di scappare, questa lettera è un po’ come buttare al di là dei confini una piccola parte di me, che provo a raccontarti.
Mi chiamo Tahira, vuol dire donna pura e devota. A me sarebbe piaciuto di più Jina, come Mahsa Jina Amini, il nome curdo che mia mamma avrebbe scelto per me, ma la Repubblica Islamica influenza la nostra vita anche nelle cose più semplici.
Da pochi giorni mi considerano donna, ed è forse per questo che il nero che prima vedevo intorno a me oggi lo sento dentro.
Da quando ho scoperto di avere le mestruazioni tutto è cambiato, come se mi fosse caduta addosso una colpa; sono diventata pericolosa. Da mesi avevo notato gli sguardi degli uomini su di me, non quelli dei miei coetanei che sono ancora bambini, ma gli amici di papa, lo zio, i cugini più grandi mi osservano in maniera diversa. La mamma mi ha spiegato che non devo provocare, non devo far cadere un uomo in tentazione, devo abbassare lo sguardo se mi sento gli occhi addosso; “avrei voluto solo figli maschi -mi ha detto- per non dover rivivere questo momento”. Devo evitare: di parlare, di sorridere, di guardare e di sentirmi bella…i miei lunghi capelli neri cosi lucidi e forti sono da qualche giorno coperti da uno hiijab. Mio fratello Mohammed mi guarda con occhi tristi, “sapevamo che sarebbe successo” mi ha detto. È troppo piccolo per capire perché fa tanto male, forse dovrei spiegarglielo per sperare che un giorno sia dalla nostra parte come gli uomini che scendono in piazza accanto alle donne, per salvare le loro sorelle, le loro figlie. Devo coprire un corpo che ancora devo accettare, vorrei sbocciare, ho bisogno di sentirmi dire che sono bella nonostante i brufoli.
Le manifestazioni degli ultimi mesi mi danno speranza, ma è difficile per me pensare di partecipare. Ho sentito papà che parlava con zio Rashid: “per fortuna Tahira non si interessa a queste cose – diceva- sarebbe una vergogna per tutti noi”. Era buono il mio papà, lo è stato sino a poco tempo fa quando mi chiamava “la sua bambina”, e adesso mi è nemico, mi rivolge la parola solo per sapere se ho studiato e io lo rassicuro. Ha smesso di amarmi o un uomo che mi vuole coperta e con lo sguardo triste non può amare davvero?
Sento montare una rabbia faticosa sotto i miei vestiti larghi, mi vergogno perché non sono in piazza, perché non ero con Nika Shahkarami quando è stata arrestata dopo aver dato fuoco al suo hijab durante una protesta a Teheran… aveva solo 16 anni e la polizia l’ha uccisa.
Non voglio rischiare la mia vita, ma non posso accettare quella che mi impongono. È vero, sapevo che questo momento sarebbe arrivato e mi sembrava nell’ordine delle cose, la normalità. Adesso però che sento quanto fa male, so che non posso accettarlo, che per poter vivere devo seguire questo movimento senza leader, questo fiume di pensieri e capelli.
Salgo sul tetto dove nessuno può vedermi e tolgo il velo, quello che prima era una sensazione quotidiana oggi è un atto di ribellione, libertà clandestina la chiamano (#MyStealthyFreedom), ma non mi basta; come dice Narges Mohammadi, che ha ricevuto il Nobel per la pace in carcere “i pensieri e i sogni non muoiono”.
*Jin, Jîyan, Azadî, ژن، ژیان، ئازادی
Maria Pranzo
Bellissima questa lettera, suona così vera da far sentire sulla pelle cosa possano provare Tahira e tante ragazze come lei oggi in Iran. Grazie.