WPP, L’ORRORE IN SCENA
Durante l’estate ho visto la mostra del WPP Award, uno tra i più prestigiosi premi foto giornalistici del mondo. Senza dubbio il più conosciuto al pubblico e dai fotografi considerato una grande vetrina. Ogni anno vi partecipano migliaia di professionisti e la giuria lavora per settimane per valutare quasi centomila foto. Questa giuria che cambia di volta in volta è formata da foto editor, curatori e fotografi esperti. Una volta assegnati i premi vengono realizzati anche una mostra itinerante in decine di città del mondo ed un catalogo. Da alcuni anni all’entrata dei musei dove c’è l’esposizione viene esibito un grande pannello con tutte le fotografie che dal 1960 ad oggi sono state premiate come migliori foto singole e tra queste figurano immagini che hanno fatto la storia del foto giornalismo mondiale, immagini che sono entrate a far parte del nostro immaginario. Rilevante è anche che si tratti essenzialmente di fotografi europei o americani, qualche asiatico o sud americano.
Negli anni sono stati numerosi gli italiani a ricevere menzioni, dai pluripremiati Pellegrin, Venturi e Zizola ai più giovani come Masturzo, Palazzi ed altri.
Inoltre da alcuni anni sono sempre più presenti donne reporter tra i vincitori.
Quest’anno a causa del covid la quantità dei fotografi che si sono presentati si è ridotta e le foto inviate sono state circa settantamila per oltre quattromila partecipanti. (Ventimila immagini in meno rispetto all’edizione precedente).
La visione di questa mostra risulta sempre di grande stimolo nonostante la drammaticità delle storie perchè tutto ciò che ruota dentro, attorno e a volte dietro le quinte dei premi offre occasioni di riflessione e nuove conoscenze. Ad esempio la scoperta della fotografa turca Sabiha Cimen nella scorsa edizione che pochi giorni dopo aver vinto il WPP è entrata nella famosa agenzia Magnum, oppure le dichiarazioni del presidente della giuria che quattro anni fa si oppose alla decisione di far vincere una foto che presentava un assassinio perché a suo parere diseducativa o ancora l’esclusione del fotografo Giovanni Troilo ben dopo l’assegnazione di un premio per falsificazione di didascalie.
Un aspetto che trovo sempre interessante è anche lo studio dell’estetica delle immagini vincitrici e l’influenza che c’è su queste dell’immaginario cinematografico ma soprattutto i forti legami con la pittura classica. Si tratta di un punto importante in questo tipo di fotografia perché si lega all’idea della rappresentazione del dolore che si tramanda nel tempo con concetti ed estetiche precise.
Stavolta però le cose sono andate diversamente. È stato particolarmente difficile individuare lavori di spessore ed originalità tra le decine di foto esposte ma soprattutto alcuni aspetti sono stati particolarmente importanti per gli studenti presenti alla visita. Il vedere immagini che raccontavano della pandemia ha creato una certa risonanza. Si è verificato così un doppio tipo di reazione; da un lato di chi ne è stato toccato senza riuscire ad averne distanza e risultandone in un certo senso schiacciato, dall’altro chi proprio a fronte di una conoscenza ha guardato con una maggiore elaborazione ed un certo distacco.
In merito a tutto ciò non è poi da sottovalutare il fatto che nell’ultimo anno abbiamo passato molto più tempo dentro casa, davanti ai pc, gli smartphone o le televisioni dove la quantità di immagini che abbiamo visto è stata molto più grande del passato; probabilmente tale processo ha portato assuefazione e normalizzato molte visioni che ai nostri occhi hanno perso di “fascino” nonostante il tentativo da parte dei narratori visuali di costruirle efficacemente.
L’aspetto più preoccupante è stato notare una presenza in quasi tutti i lavori premiati di una forte negatività nelle storie raccontate, problema che in realtà è ormai quasi strutturale anno dopo anno. Evidentemente risulta ancora impossibile uscire da certe idee ed “il dramma”, raccontato sempre con uno stesso modo potremmo azzardare “essere di moda”. Alcune domande che ci siamo posti ci aiutano ad orientarci in modo diverso e ci fanno capire come normalmente certi temi ci vengono offerti da chi fa informazione.
Perchè la scelta di così tanti fotografi tende verso tematiche tragiche e il modo di narrarle sembra non contemplare mai delle possibilità di risoluzione dei problemi affrontati? Perché là dove si è scelto di raccontare ad esempio della diffusione del virus non si è andati a premiare anche quei lavori che hanno mostrato dei ricercatori che sono riusciti ad isolarlo. Perché non si è parlato del primo paziente guarito? Probabilmente la questione è a monte, là dove sono proprio i fotografi stessi a non essere in grado di guardare diversamente.
Va poi ricordato che in genere il pensiero del fotoreporter è quello di denunciare fatti negativi secondo un’etica più o meno condivisibile attraverso un’auspicata neutralità del punto di vista per non alterare la concretezza della realtà che ha davanti. Ci chiediamo però come mai nonostante tutte le migliori intenzioni si percepisca quasi sempre un atteggiamento profondamente fallimentare. Questo pensiero negativo è difficile da descrivere con chiarezza ma è come se corrispondesse a qualcosa di più profondo, ad un tipo di atmosfera della luce, allo stile, ad un modo di inquadrare gli esseri umani retorico, tendenzialmente apatico, con una partecipazione dell’osservatore diremmo duplice e non armonica. Quale sia il “giusto modo” non è certo semplice da definire e non voglio pensare che sia qualcosa da poter essere codificato ed imposto, ma mi chiedo cosa significhi denunciare dei drammi senza avere nel proprio pensiero una profonda idea di possibilità risolutive e come mai la sensazione uscendo da queste esposizioni sembra essere sempre di grande sconforto. Si tratta di una impossibilità dell’osservatore che viene denunciata ed esaltata dalla visione o è forse un pensiero che indirettamente viene creato dal narratore della storia che va a porsi come un eletto, scelto per diffondere una comunicazione che in realtà va a veicolare una paura? Va anche evidenziato che il foto giornalista fa parte di una catena complessa e il suo lavoro può essere visto se selezionato e presentato su un magazine che a sua volta è fatto da persone che pensano in un certo modo. Il giornale stesso di cui queste persone fanno parte per quanto si dichiari indipendente fa parte a sua volta di cordate politiche più o meno potenti che influenzano a monte la linea editoriale. Tutto questo rappresenta una enorme catena in cui circolano idee che per “passare” devono essere accettate da chi rappresenta i vertici di una scala gerarchica. Quindi il reporter va a realizzare un lavoro che per essere venduto e diffuso “deve piacere” ed essere in linea con il pensiero del giornale. Difficile a questo punto poter parlare di una vera indipendenza di un pensiero. Ricordo uno studente che durante una lezione chiese: “Quindi è come se i fotoreporter siano in realtà dei cani da riporto?”. Di certo un’espressione un po’ forte ma nella maggior parte dei casi possiamo dire che sia così; il giornale / padrone lancia l’osso al cane e vuole che gli venga riportato.
Viene così da domandarsi che tipo di contenuti avessero le migliaia di immagini scartate dai giurati del WPP.
Infine l’ultimo aspetto considerato è stato il rapporto tra immagini e parole. Ogni fotografo da regolamento deve presentare al concorso le proprie fotografie corredate da didascalie articolate. La descrizione a parole di un’immagine è un momento complesso nel lavoro di un fotografo e richiede notevole professionalità e una buona capacità di sintesi. Nonostante queste fotografie fossero realizzate da professionisti che procedono con l’idea di permettere all’osservatore una comprensione quasi immediata seguendo la regola delle 5 W, (where, what, who, when e why) abbiamo verificato che senza la lettura delle didascalie questa comprensione era in molti casi assente. La famosa frase “un’immagine vale più di mille parole” è stata così drasticamente ribaltata.
Al termine della visita la sensazione era particolarmente negativa e sono nate nuove domande. Perché tornarci ancora, ma più di tutto che senso ha raccontare ancora in questo modo i fatti che accadono nel mondo se ognuno di noi grazie ad uno smartphone può condividere istantaneamente immagini a livello planetario? Che tipo di nuovo approccio sono chiamati ad avere i foto giornalisti di domani o addirittura di oggi?
Nel frattempo decine di giornali chiudono o sono costretti a reinventarsi sul web.
Per quanto riguarda noi però, dato che non pensiamo sia giusto non trovare nemmeno un aspetto buono nelle storie che scopriamo siamo riusciti ad individuare qualcosa che ci ha dimostrato che anche in un panorama così triste un seme positivo c’è. La fotografa russa Alisa Martynova ha realizzato un lavoro sui migranti africani in Italia con una particolare luce rossa che durante la visita ci ha incuriosito. Tra i vari ritrati una foto con delle gocce di pioggia nella notte illuminate da un flash ha attirato la nostra attenzione; grazie al fatto che non riuscivamo a decifrarne il senso siamo andati a cercare la didascalia corrispondente che così recita: “Le gocce d’acqua simboleggiano le tempeste descritte nelle storie dei migranti”. In un momento in cui la circolazione delle immagini “prese dalla nostra realtà” si va a fondere in pochi secondi con il momento stesso del loro farsi per perdersi nel mare dei social network finalmente sembra emergere qualcosa di diverso; la parola “simboleggiano” e l’idea di una metafora forse ci presenta una chiave preziosa su cui pensare di poter costruire un nuovo modo di raccontare.
Filippo Trojano
Anche io come te noto un certo appiattimento nei contenuti e soprattutto nella forma e nel linguaggio usato per esporli.
Il wpp è una ” competizione” che premia i migliori lavori di fotogiornalismo che durante l’anno sono stati pubblicati in varie piattaforme. Le categorie premiate sono diverse, dalla foto singola che è il premio che ha maggiore visibilità ai progetti a lungo termine, alle foto di natura e sport e ambiente.
Per partecipare al contest ci deve essere il fotografo professionista che fa fotogiornalismo e la committenza, giornale o agenzia, che lo ha inviato sul campo o ha comprato il servizio. Nella maggior parte dei casi il fotoreporter come lo intende il WPP è colui che riporta la pura cronaca dell’evento, arriva sul posto, scatta, seleziona, invia e ritorna alla base senza la necessità di porsi delle domande o tantomeno di creare empatia con l’ambiente che sta osservando. Credo che molto spesso la delusione dello spettatore rispetto ad una mostra del genere derivi proprio dal percepire lo stridore che c’è tra il contenuto drammatico dell’immagine e la sua estetica estremizzata da colori saturi e atmosfere caricate. Come chi scrive la cronaca sui quotidiani, enfatizza, sottolinea, sensazionalizza e cosi’ il pezzo è piu’ “vendibile”. Non è una storia solo di oggi..ma forse la storia c’entra.. se penso alle foto iconiche del giornalismo, dalla bambina vietnamita ritratta da Nick Ut all’immagine di Aylan Kurdi riverso sulla spiaggia, qualunque sia stato il ruolo del fotografo o le motivazioni che lo hanno spinto a scattare e il giornale a pubblicare, ne devo riconoscere il valore di denuncia che ha contribuito a cambiare qualcosa nella testa di chi le ha viste. Il problema quindi potrebbe non essere la foto in se ma l’uso che se ne fa del suo contenuto e come viene mostrata, un prodotto da ammirare ben confezionato. Questione di sensibilità, forse, anche da parte di chi guarda..mi ritrovai nel 2010 a vedere una mostra di un lavoro collettivo sul terremoto di L’aquila che si è tenuta in un paese vicino… i commenti che ho sentito erano per lo più giudizi sulla foto, (bella, brutta), alcuni raccontavano di quanti amici avevano lasciato sotto quel cumulo di macerie cosi’ ben ritratto.
E’ capitato anche che un fotoreporter ” testimone della storia”, in tempo di pandemia, anzichè infilarsi negli ospedali a raccontare la tragedia della malattia, sia rimasto a casa con la famiglia e abbia raccontato quei momenti in una bellissima sequenza di immagini in bianco e nero, un diario intimo decisamente insolito da parte di chi, appunto, racconta sempre storie di altri.
Poi, come dici tu, ci sono anche le fotografe e allora il punto di vista cambia…
Sempre una questione di sensibilità.