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STO BENISSIMO “MA” NON CHIEDO AIUTO: COSA FARE PER I RAGAZZI CON COMPORTAMENTI DEVIANTI

STO BENISSIMO “MA” NON CHIEDO AIUTO: COSA FARE PER I RAGAZZI CON COMPORTAMENTI DEVIANTI

A giugno, nell’articolo “Sto malissimo ma non chiedo aiuto” ho affrontato gli aspetti culturali e psicologici che ostacolano un ragazzo, consapevole di stare male, nell’avvicinarsi ad una psicoterapia. Oggi invece vorrei parlare di un tema ben più spinoso, che riguarda tantissimi giovani che, pur stando oggettivamente malissimo, non se ne rendono minimamente conto ma se ne rendono perfettamente conto le persone che vivono accanto a loro. È qualcosa che attraversa trasversalmente tutti i ceti sociali.

In questi casi lo psicoterapeuta è pressoché impotente. Spessissimo mi sono trovato con genitori che volevano mandarmi il proprio figlio che però non aveva alcuna voglia di venire da me o comunque di fare una psicoterapia ed io sono stato costretto, con dispiacere, a dire loro che se il ragazzo non ha voglia, non ne sente la necessità perché dice di stare benissimo, è assolutamente inutile che venga anzi forse è addirittura dannoso. Iniziare una psicoterapia quando il ragazzo ti viene portato dai genitori o dagli insegnanti, talvolta dagli amici stessi, senza che ne abbia minimamente voglia, significa fare un buco nell’acqua con la quasi certezza che quel ragazzo non lo rivedrai mai più.

Il cardine per poter fare una psicoterapia è che ci sia la motivazione a farla, che la richiesta parta dal ragazzo. E allora che si fa? Dico subito che non ho una ricetta anche se sono anni che mi rompo la testa su queste problematiche, su come affrontarle, sulla strategia da adottare. Sta di fatto che questi ragazzi si trovano nella terra di nessuno e qualcosa bisogna pur tentare di fare. Ma andiamo con ordine e cerchiamo intanto di capire di chi e di cosa stiamo parlando.

Non mi riferisco ad una precisa categoria diagnostica ma a tutte quelle situazioni in cui si arriva ad una condotta comportamentale deviante (alcolismo, gioco d’azzardo, droga, comportamenti violenti, risse e cose di questo genere) che viene vissuta come liberatoria, come se tutte quelle difficoltà che il ragazzo avvertiva fino ad un istante prima, quali ad esempio il rapporto col diverso, la chiusura con i coetanei, il sentirsi brutti e via dicendo, sparissero per incanto per scaricarsi nel comportamento malato. Comportamenti che a loro volta determinano tutta una serie di altre situazioni negative a cascata per cui poi il ragazzo finisce spesso col mettersi in situazioni veramente brutte.

È come se ad un certo punto, e sottolineo ad un certo punto perché poi vorrei riprendere questo passaggio, la problematica non venisse più esperita, non venisse più sentita, non venisse più vissuta ma venisse scaricata direttamente nel comportamento, bypassando il pensiero, bypassando la capacità di viversi questo malessere, malessere che non viene vissuto perché viene immediatamente scaricato in un agito, un comportamento. Da notare che questi ragazzi molto spesso manifestano una grande sensibilità, contrariamente a quanto si crede, sensibilità che però appunto non arriva al pensiero ma è come se provocasse un cortocircuito immediato tra la sensazione e il comportamento senza passare attraverso un vissuto, un’affettività adeguata, un pensiero. Se prendiamo una lente di ingrandimento possiamo vedere una dinamica attiva molto potente che dà luogo a questo cortocircuito. Infatti, perché questo avvenga, è necessario che prima si verifichi un annullamento delle dimensioni affettive di rapporto, annullamento che determina un vuoto interno che a sua volta conduce ad un bisogno compulsivo di colmare questi vuoti di pensiero/affetti con la condotta comportamentale patologica creando così un loop, una coazione a ripetere che trae forza e alimento dal meccanismo stesso. Si realizza così una catena circolare che si autoalimenta ben difficile da spezzare.Talvolta questi ragazzi non riescono a fermarsi e arrivano ad una situazione in cui hanno bisogno di un contenimento esterno, qualcosa che funga da “Io ausiliario” come se poi dovesse essere una situazione esterna, un’istituzione, per esempio una comunità, a sostituirsi all’Io (pensiero/affetti) mancante e queste situazioni riescono a mitigare l’evolversi di certi comportamenti anche perché ovviamente in questi contesti il comportamento deviante viene bloccato, viene impedito dall’esterno, però il rischio è che così si possa superare soltanto la manifestazione sintomatica senza però risolvere la problematica interna. Anche perché di solito queste istituzioni sono gestite in modo tale che più che fungere da Io ausiliario, che in qualche modo dovrebbe restituire pensieri e affetti, funziona da Super-io ausiliario, cioè l’idea di fondo è quella di ripristinare un controllo interno che deve tenere a bada l’insorgenza dell’impulso al comportamento deviante per cui poi il ragazzo dovrebbe passare la vita a controllare l’emergenza della bestia, sempre pronta ad uscire dalla gabbia.

Cosa fare allora? Prima dicevo che questo passaggio immediato dalla sensazione sgradevole al comportamento avviene ad un certo punto ma prima di quel punto lì c’è un momento, di solito intorno agli 11/12/13 anni, in cui il malessere viene invece vissuto, anche se in assoluta solitudine e con l’idea di essere i soli portatori di quel malessere che pertanto viene considerato insuperabile e incomunicabile. Credo che in questa fase ci sia ancora un’ampia possibilità di intervento ma è importante che tutti, dagli amici, ai professori, parenti, istruttori di vario genere, si diano da fare per rompere quel guscio impenetrabile nel quale il ragazzo si è cacciato. I segnali di tutto questo possono essere molto nascosti, difficili da individuare. Ne cito invece uno frequentissimo e facile da notare: il crollo del rendimento scolastico seguito spesso da numerose assenze. E qui mi sento di lanciare l’ennesimo appello agli insegnanti, ripetutamente proposto su questo blog, a non limitarsi ad etichettare frettolosamente il ragazzo come svogliato ma a cercare di comprendere se sotto non ci sia altro. Ovviamente di segnali ce ne sono tanti altri, che non sto qui ad elencare, ma almeno questo così evidente cerchiamo di coglierlo. (Attenzione a non cadere nell’errore opposto di credere che se il ragazzo va bene a scuola vuol dire che sta bene: basti pensare alle anoressiche, ma non soltanto a loro, che di solito sono molto brave a scuola).

Qui comunque, come dicevamo, c’è ancora margine per poter intervenire con efficacia, questo è il momento fondamentale in cui ci può essere una svolta da una parte o dall’altra e di questa svolta siamo tutti responsabili perché molto spesso il ragazzo si mette nei guai perché si sente solo, incompreso, solitudine e incomprensione che poi “risolve” frequentando persone che stanno come lui o peggio di lui e a questo punto la situazione diventa davvero brutta.

Passato questo periodo in cui c’è ancora un vissuto di malessere, i genitori e i terapeuti vengono completamente tagliati fuori da una possibilità di rapporto valido col ragazzo ( i primi perché visti come il fumo negli occhi, i secondi per i motivi espressi prima) ed io credo che un ruolo centrale possano invece ancora averlo i professori (anche se la scuola deve cambiare radicalmente) ma direi soprattutto gli istruttori dei vari sport e di altre attività, o comunque tutte le figure con cui il ragazzo può fare un rapporto più libero, completamente slegato dai genitori e da un contesto di cura. Sarebbe allora importante che queste figure non avessero la cultura del “canta che ti passa”, l’idea che per non avere problemi basta non pensarci perché questo “pensiero” è proprio quello che dovremmo combattere. Sarebbe bello poter creare una rete, una sinergia che possa arginare questo enorme dramma a cui assistiamo impotenti quotidianamente. Spesso ci sono belle persone che si trovano ad affrontare queste difficili situazioni ma non sanno cosa fare, non hanno gli strumenti per intervenire. Farci qualche chiacchierata insieme, magari online, potrebbe essere un buon inizio!

È chiaro che se vogliamo dare veramente una mano a questi ragazzi dobbiamo in primo luogo rifiutare questa cultura che ci dice che siamo tutti figli di Caino, che la natura umana è violenta e cattiva. No, cattivi e violenti si diventa quando ci si ammala. Se non abbiamo ben chiaro questo possiamo tutt’al più spingerli a controllarsi, come se per loro fosse però preclusa per sempre la possibilità di viversi una vita felice. Mi sembra inaccettabile.

Marco Michelini

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