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TREMORE

TREMORE

Caro Papillon,

in una corrispondenza di solito uno da una parte dice “sono sempre io” e avevo pensato di iniziare così questa lettera. Ma qui che a corrispondere ci sono cose profonde potresti chiedermi “sempre?”.
Ho letto da qualche parte che tutta la pelle del nostro corpo si rinnova in un solo mese. 12 volte all’anno e 120 volte in 10 anni.
La ricerca cellulare dimostra che, a quanto pare, il corpo si rigenera costantemente. Che si tratti dello scheletro o degli organi, per alcune cellule c’è un ricambio veloce, mentre altre si rigenerano solo poco e lentamente nell’arco degli anni.
E quindi no, caro Papillon, come potrei essere “sempre” io?
Certo con le cellule è più facile. È più sicuro. Le cellule si vedono, almeno al microscopio.
A proposito di cellule, volevo raccontarti una storia.
Non è una storia d’amore, credo. Magari è più simile ad un documentario sulle api e sui fiori. Forse se dovessi fare un’introduzione, direi che è la storia di un tremore.
Come quello con cui sono stata concepita.
Mia madre mi ha partorito che aveva 30 anni e col tempo ho capito anche perchè.
Non so se lo sai, ma avere 30 anni alla fine degli anni ’80 voleva dire avere un lavoro, un futuro già intrapreso e ben definito e una strada davanti lastricata di traguardi da tagliare.
Mia madre mi ha partorito il 9 gennaio del 1988 e io non volevo nascere, infatti il termine era scaduto da un paio di settimane, e le hanno dovuto fare il cesareo.
La storia dentro casa mia è sempre stata raccontata così: che io non volevo nascere e che, a testimonianza di questo, mia madre portava una grossa cicatrice sul ventre.
Ma io, se ti devo dire, non me la ricordo proprio questa ostinazione a non venire al mondo, tanto più che poi ho scoperto che per prendere certe decisioni, o non prenderle, pensa un po’, prima tocca nascere.
Quindi crescendo ho un po’ ripensato in modo critico a quella faccenda, insieme ad un altro paio di storielle poco credibili, tipo quella di babbo natale e quella del corpicino appeso alla croce venuto per noi e per i nostri peccati.
Mia madre forse, non voleva che venissi al mondo. Ma come? Tua madre? Ma come si può anche solo pensare una cosa del genere?!
E infatti non riuscivo a pensarlo.
Perchè te lo dicono da quando sei piccolo e ti regalano il primo bambolotto, che l’amore di una madre per un figlio è la forma più alta e insindacabile di amore, o che tua madre per te darebbe la sua vita. E lo sai perchè? Perchè tu, che ti barcameni faticando cercando il modo per riuscire ad essere te, in realtà, non sei te. Eh no! Troppo facile.
Tu sei un pezzo di tua madre e un pezzo di tuo padre (ma più di tua madre è! Perchè l’amore di una madre blablabla).
Ma questa era una piccola digressione.
Dicevo che io, nonostante ci fosse qualcosa di strano, proprio non potevo immaginare che mia madre potesse detestarmi al punto da non volermi nella sua vita.
Finchè, per fortuna, un bel giorno, quando i miei genitori si stavano separando, la storia per quello che era uscì fuori dalla sua bocca, portandosi dietro un sapore amaro di crudeltà e liberazione.
“Se tu non fossi nata, non sarei mai rimasta con tuo padre!” disse nel bel mezzo di uno dei litigi feroci che capitano sempre tra un’adolescente in piena crisi di mezza età e sua figlia.
Quindi eccolo lì. Eccomi lì, davanti ai suoi occhi, il frutto di quello che doveva essere l’amore di una madre, e allo stesso tempo la ragione principale della sua condanna ad una vita di infelicità vicino ad un uomo che non voleva, di cui forse non era mai stata innamorata e dal quale non era capace a separarsi.
Ma devo dirti, caro Papillon, che la cosa che mi ricordo con maggior stupore è stata la mia reazione a quella frase, con una tale rabbia priva di sensi di colpa, persino un po’ grata, come se avesse pulito il torbido da un bicchiere del quale non riuscivo a vedere il fondo.
E forse è stato quel sentirmi dispensata da un amore materno così appiccicoso e pieno di contraddizioni che ha fatto sì che per la prima volta non mi sono più sentita una figlia, ma una persona e mia madre, anche lei, solo una persona, con tutti i suoi problemi e le sue fragilità, che chissà perchè fino a poco prima avrei perdonato a tutti, meno che a lei.
E quindi a proposito di cellule, ad un tratto, in quel litigio con quella che era mia madre, la genetica era diventata meno importante, quasi inconsistente. Ed essere sua figlia non mi rendeva come lei.
Caro Papillon, mentre ti scrivo questa storia, per la quale come al solito fatico a trovare una morale, sorrido perchè mi sento come una che ha scampato un grande pericolo.
Non tanto perchè pensi di essere stata fortunata, nè tantomeno brava, ma perchè ho la sensazione che qualcosa dentro di me abbia funzionato. Che io funziono, come persona, non come un assemblaggio malconcio di problemi ereditari.

Certo ci è voluto molto tempo per arrivare a questo pensiero.
Ricordo di aver litigato incessantemente con mia madre, fino allo scortico, e di aver sofferto e di non aver capito niente per un sacco di tempo. Ma forse qualcosa dentro di me si stava comunque muovendo.
Le cellule?
O magari i pensieri.
Mi ci è voluto un bel po’ a scrivere questa lettera. Non so bene perchè ma provo a prendere in prestito le parole di qualcun altro, magari così me lo prova a spiegare.

Ilaria Serpi

Ti voglio dedicare una poesia
adesso che sono vivo
e posso vederti, posso abbracciarti.
Tu non mi fai recintare la luce,
non mi fai dire cose già concluse.
A volte mi chiedo
che amicizia sarebbe la nostra
se tu non fossi mio figlio.
Ti scrivo per dirti
che il mio amore per te è scandaloso
e voglio che sia chiaro a tutti,
voglio che sia detto senza reticenza.
Io ti dono questo mio stare sparso
e conficcato dentro uno spavento
che non passa.
Averti vicino è un soffio di bene,
è qualcosa di più
della paura che abbiamo in ogni cuore.
Come fai ad essere così forte
tu che sei figlio di un tremore?

Franco Arminio

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Foto scattata da: Sachith-Ravishka-Kodikara
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