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TRA UN MANIFESTO E LO SPECCHIO

TRA UN MANIFESTO E LO SPECCHIO

Interno notte. La suite di un albergo. Un giovane uomo in primo piano sta facendo una chiamata telefonica in vivavoce. Parla con tono alterato. Alle sue spalle due grandi tende rosse di tessuto pesante decorano le finestre. Indossa una maglietta bianca a maniche corte sulla quale si intravede un disegno colorato. Ha il dorso delle mani tatuato come parte delle braccia. Oltre al telefono tiene in mano anche una sigaretta elettronica. Sentiamo la voce off di un uomo con cui sta parlando e a questo dopo un po’ se ne aggiungerà un altro. Per l’intera scena non vedremo mai i loro volti e il luogo in cui si trovano, li potremo solo immaginare dal tono della voce; dovremo immaginarne l’età, le espressioni del viso, l’abbigliamento. Durante la telefonata è certo però che si guarderanno spesso e parleranno forse tra loro anche a gesti. “Non è editorialmente opportuno”.”Io sono un artista, salgo su un palco e dico quello che voglio e mi assumo la responsabilità di ciò che dico. Le asserzioni che riporto nel mio testo sono verificate, sono asserzioni di consiglieri leghisti che dicono “se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno”. Perché non posso dirlo?”. “Le sto chiedendo solamente di adeguarsi a un sistema che probabilmente lei non riconosce”.”Allora mi rappresenti questo sistema! Qual è la parte incriminata che non va bene nel testo?”.”Tutte quelle situazioni che lei fa con nomi e cognomi non possono essere citale”. “Perchè, non sono vere? Avete verificato se sono vere?”. “A prescindere”. “Perché a prescindere?”. “Quelle affermazioni possono essere dette in contesti che non sono quelli che lei sta dicendo”. Il giovane sempre più incredulo indietreggia d’istinto verso un divano facendo un piccolo salto, si volta a destra per cercare qualcosa, alle sue spalle sono ora visibili un dipinto ottocentesco con una figura di donna nuda, una lampada bianca, un cuscino ricamato. Prende dei fogli da cui legge la frase già citata. Si riavvicina fino ad arrivare in primissimo piano e notiamo che ha le unghie smaltate. “Ah si? Quindi dire “se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno” messo in un contesto diverso assume un significato diverso?”. “Sto dicendo che questo non è il contesto corretto”. “Ma chi lo stabilisce? Io su un palco devo essere libero di dire il cazzo che voglio, mi scusi il francese, non lo stabilisce lei che cosa posso o non posso dire su un palco”. 

Sentiamo adesso anche una voce di donna che entra in scena. La chiamata coinvolge ora quattro persone. 
Dopo una serie di battute la voce che avevamo sentito all’inizio rientra balbettando.
”Sì, devo parlare… cioè io devo chiedere… dobbiamo fare… Noi siamo in difficoltà”. 
Si scambiano ancora diversi pensieri, poi il tutto si dilata come se entrasse una nebbia intorno ai personaggi; le loro voci rallentano, restano solo in due da un capo all’altro del telefono.

”Io veramente ti ho chiamato a cantare”.
”Io riporto solo fatti, che non sono contestabili perché se una persona dice: Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno, in quale contesto può essere interpretato in un modo diverso, se avessi la controparte davanti cosa potrebbe dire in merito visto che c’è anche un procedimento giudiziario su questo caso che vi sto citando, fatemi capire. Sono imbarazzato per voi”. 



Si salutano dandosi appuntamento al giorno seguente. Il tutto ha una durata di appena due minuti e venti secondi. 
Se si scrive su youtube la parola “telef…” il suggerimento del motore già dopo solo cinque lettere porta a questa telefonata. Si tratta di uno scambio tra il musicista Fedez, gli organizzatori del concerto del primo maggio e la vice direttrice di Rai Tre il giorno prima dell’evento al quale il rapper era stato invitato ad esibirsi. Diverse sono state finora le reazioni e le posizioni in merito a questa storia. Da chi porta la questione su un piano politico a chi ne intuisce dinamiche di promozione commerciale, a chi riflette sulla dipendenza o meno di una persona in base alle sue possibilità economiche e vincoli lavorativi. Ad altri ancora tutto questo sembra semplicemente assurdo. Sono passate diverse settimane dall’accaduto e questa storia sembra già una cosa lontana ma a me interessa provare a considerare qualcos’altro e lo faccio partendo dalla forte sensazione provata all’ascolto di una frase pronunciata fin dalla prima volta: “Io sono un artista e quando salgo su un palco faccio quello che voglio”. Mi sono sentito come in quelle scene dei film in cui una persona sotto shock riceve una sberla per essere risvegliata. Devo ammettere che non mi era mai capitato di sentire qualcuno dire con così tanta sicurezza una cosa del genere e penso che magari questa storia oggi, ci permetta di fare riflessioni più profonde. Abbiamo visto senza filtri qualcosa di simile a quello che possiamo aver letto, immaginato e amato studiando la vita di molti artisti della pittura del passato, poeti rivoluzionari o grandi registi che in varie occasioni hanno subìto forme di censura. Sappiamo bene che tanti di questi hanno lottato silenziosamente attraverso il contenuto poetico delle loro opere e non è mia intenzione paragonare Fedez ad altri, voglio solo prendere le sue parole per riflettere. Ognuno sembra avere ora idee molto precise sull’accaduto anche perché Fedez e sua moglie fanno ormai parte del nostro quotidiano e dato che viviamo in questa era social in cui ogni giorno votiamo dal nostro pulpito virtuale col pollice alzato i fatti del mondo, anche in questa occasione siamo ottimi allenatori di calcio davanti alla tv. Ma forse non ci siamo ancora posti alcune domande. Cosa chiediamo all’arte, a cosa serve, come può esprimersi un artista e soprattutto quale rapporto c’è tra arte e politica? L’artista era stato chiamato a cantare ma questa volta ha scelto di non esibirsi nel modo che ci si aspettava, con la sua musica, con quello per cui normalmente ci fa gioire, ridere o piangere. Non è uscito dalla scatola a molla dopo che abbiamo schiacciato il bottone per poi rientrarvi, non ha camminato sul filo senza rete di protezione per gli applausi e il nostro stupore. Ha preso dalla realtà, quella triste e ha parlato. E noi ora, cosa facciamo? Di sicuro giudichiamo ma magari riflettiamo anche e, forse, facendolo potremmo anche capire che molte ipotesi di questa storia che ci vengono in mente possono essere in realtà risposte su noi stessi; risposte che ci dicono quanto nel nostro piccolo riusciamo ad essere più o meno indipendenti o quanto troppo spesso tanti dettagli presi in considerazione siano forse scuse che mettiamo per non rischiare. Non capita spesso di sentire parole così semplici ma enormemente potenti, capaci di far tremare anche solo per pochi secondi orrendi personaggi mal scritti della nostra politica; in soli due minuti parole di un’importanza grande sono state messe sul piatto in quella telefonata: libertà, artista, censura, futuro, diritti. Dentro questa piccola storia c’è forse un nuovo viaggio da compiere, lontano anni luce dalla banalità del singolo influencer. Dopo un anno così complicato in cui il mondo dell’arte ha vissuto una grande crisi penso sia prezioso che oggi questa arte tenti di bussare, chiedere presenza, riflessione alla politica e ancor più a noi stessi; quella politica che indipendentemente dal colore dovrebbe sentirsi zoppa ogni qual volta non trova quella fantasia di cui avrebbe bisogno per rappresentarci tutti e che invece l’arte ha da sempre come linfa necessaria; fantasia che porta la vita tutta verso un’idea di bellezza e che è ben lontana da quello che drammaticamente vediamo ogni giorno in Italia. A conclusione di tutto questo si presenta però una nuova domanda: Perché nel nostro paese c’è ancora un’idea così mistica e distorta di quello che è un artista?

Filippo Trojano

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