UNA GRAN CONFUSIONE NELL’ARIA
Anno scolastico 2021-2022, rientro quasi normale a scuola. Dico “quasi” perché, guardando le ragazze e i ragazzi delle classi in cui insegno, di “normale” sembra esserci ben poco. In ognuna di esse c’è infatti più di una situazione problematica e mai come quest’anno dobbiamo registrare vissuti di grave ritiro sociale con studenti che fanno difficoltà o proprio non riescono a uscire di casa e venire a scuola. Come è stato evidenziato in questo blog da diversi punti di vista, non possiamo attribuire tutte le responsabilità alla pandemia che ha probabilmente soltanto reso manifesti malesseri preesistenti.
Una mattina davanti al cancello della scuola mi sono imbattuta in una mamma alle prese con la propria figlia che non riusciva a uscire dalla macchina: un devastante attacco di panico che siamo riuscite pian piano a farle superare. Questa situazione, da quanto riferisce la mamma, si ripete tutte le mattine. La cosa più strana è che, una volta in classe la ragazza è serena e si impegna con grande motivazione e voglia di imparare.
Parlando con una collega, ho scoperto il caso di uno psicoterapeuta che segue uno dei nostri studenti e che ha consigliato l’attivazione per lui della DAD. Sono rimasta un po’ sconcertata. Se il problema è il ritiro sociale, che facciamo? Diciamo al ragazzo che va bene così, che può starsene tranquillo chiuso nella sua stanza e collegarsi a lezioni in cui si rapporta soltanto al docente che nel frattempo deve rispondere a una ventina di compagni presenti in aula? Tra l’altro non so in che modo il docente in questione possa realmente rispondere alle sue richieste che sicuramente non sono soltanto quelle di assistere a una lezione di matematica o di lingua inglese. Si potrebbe obiettare che è meglio la DAD che niente, ma forse da uno psicoterapeuta ci si dovrebbe aspettare qualcosa di più.
Non è il mio mestiere, ma azzardo un’ipotesi: questi casi potrebbero essere affrontati con incontri che coinvolgano tutti i compagni di classe, ovviamente alla presenza di uno psicoterapeuta. Non so come sarebbe possibile realizzarli, ma penso che farebbe bene a tutti cercare insieme di dare una risposta e soprattutto farebbe bene alla ragazza o al ragazzo sentire l’interesse di tutti quelli che gli stanno intorno.
Ci sono poi altre situazioni in cui mi sembra di intravedere un eccesso di patologizzazione. In un’altra classe scopro che alcune ragazze (sono per lo più femmine) sono seguite da psicologi per problematiche varie, ma più di una di loro mi ha detto di non essere contenta del lavoro di terapia che sta svolgendo. Scopro così che spesso sono i genitori a spingere i propri figli perché vadano in terapia. Ma siamo proprio sicuri che sia la cosa giusta?
Mi viene il sospetto che molti genitori non sappiano affrontare il rapporto con i propri figli e che, di fronte a difficoltà fisiologiche dell’età adolescenziale, preferiscano scaricare la responsabilità di dare risposte a uno “specialista”. Di per sé potrebbe anche non essere sbagliato se non fosse che si finisce per patologizzare vissuti che non hanno niente di patologico e sono in realtà inevitabili crisi evolutive. Penso che, visto che la difficoltà è la loro, dovrebbero essere i genitori a chiedere aiuto.
Lo sportello di ascolto presente in molte scuole è senza dubbio un punto di riferimento importante, se non fosse che non sempre chi lo gestisce sembra, a mio parere, avere idee chiare. Come viene proposto da alcuni interventi in questo blog, non è indifferente la formazione dello psicologo e/o psicoterapeuta. Anche in questo campo sembra esserci molta confusione.
Va anche chiarito che lo sportello di ascolto non può avviare una terapia psicologica, è soltanto un filtro utile per segnalare i casi in cui è necessario un intervento specifico e mirato che non può essere fatto nella scuola. Sarebbero necessari servizi sanitari pubblici dedicati agli adolescenti e ai giovani adulti, ma nel nostro Paese sono piuttosto rari per cui l’unica strada è rivolgersi a privati con costi che non tutte le famiglie possono affrontare.
Altro aspetto da evidenziare è quello delle reazioni di molti insegnanti. Di fronte a una studentessa o a uno studente che dichiara di seguire una qualche terapia psicologica, immediatamente preparano il cosiddetto Piano didattico differenziato, definendo il soggetto in questione un portatore di BES (Bisogni Educativi Speciali) con tutto quello che ne consegue e che chi lavora nella scuola conosce bene: misure dispensative e compensative che stabiliscono cosa lo studente può o non può fare. Come se la risposta potesse esaurirsi nel mettere limiti e stampelle agli apprendimenti.
Sì, mi sembra proprio che ci sia una gran di confusione nell’aria!
Per provare a fare chiarezza sono preziosi incontri come quello del 19 novembre scorso organizzato da Papillon al quale spero ne seguano molti altri.
Grazie!
Mariantonietta Rufini
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