LA ZONA DI INTERESSE
La “zona di interesse” è il termine burocratico con cui i nazisti chiamavano il territorio polacco di 40 km quadrati del campo di concentramento di Auschwitz. Ed è qui, in una bella villetta circondata dal verde, il cui muro di cinta è anche quello del campo di sterminio, che si svolge la vicenda al centro di questo film del regista inglese Jonathan Glazer. Un film unico, difficile da metabolizzare ma che penso meriti di essere visto
Protagonista del film è la “bella famiglia ariana” che vive nella villa: Rudolf Hoss, il comandante del campo di concentramento, sua moglie e cinque bambini. Lavoro, scuola, vacanze, feste di compleanno scandiscono la loro vita “normale”, del tutto estranea e disinteressata a ciò che avviene a pochi metri di distanza e di cui, nella parte iniziale del film, siamo ignari. Il regista sceglie di non farci vedere nulla del lager se non un muro di cinta nudo, grigio, filo spinato, tetti e un’alta ciminiera, visibile dalle finestre della casa.
Oltre quel muro c’è una fabbrica di morte, nel vero senso della parola. Le riunioni dei suoi “amministratori”, da cui intuiamo quello che succede lì dentro, sono infatti quelle di una qualunque azienda in espansione: nuove camere a gas, nuovi processi da seguire, schemi, disegni, strategie. Una “produttività” assicurata da una macchina umana lucida, fredda, acritica ed efficientissima. Uno sforzo collettivo gigantesco, senza sbavature, senza tentennamenti: bisogna bruciare il “carico” sempre più in fretta, i numeri degli arrivi giornalieri non consentono perdite di tempo.
La cenere dei resti umani copre ogni cosa, il fiume dove i bambini fanno il bagno, il giardino della casa, dove viene usata come concime e dove tutto cresce bello e rigoglioso. Piante e persone sembrano ugualmente indifferenti rispetto alla morte e al dolore dietro quel muro.
Nell’oscurità della notte il bagliore delle fiamme che escono dalla ciminiera del forno crematorio è ben visibile dalle finestre della casa, i rumori senza tregua di una catena di montaggio assurda e mortifera impediscono il silenzio. Ma la vita continua nella sua “normalità”, nessun cedimento della logica, nessun dubbio. Bambini andate a letto, domani c’è la scuola.
Anche quando il comandante viene promosso ad ispettore generale e deve andare via la moglie sceglie di restare, quello è il suo “spazio vitale”, il suo bel giardino.
Non so se sia mai stato realizzato un film così potente sull’olocausto. L’attenzione è rivolta ai carnefici, non ci sono scene di violenza, il campo di sterminio non si vede mai, ma i volti inespressivi dei protagonisti, i gesti senza grazia della donna, la tranquillità con cui si appropria delle cose altrui (gli oggetti sottratti alle persone deportate), sono rappresentati in un modo che non lascia dubbi su cosa sia la “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt. In loro non c’è risonanza emotiva con quello che gli accade intorno, nessun pensiero, mai. Eppure sono persone “normali”, lei è una “perfetta” madre e moglie borghese.
Il regista utilizza le immagini, i colori, ma soprattutto le musiche e i suoni, per farci cogliere, al di là della percezione cosciente, una disumanità, un’anaffettività, un annullamento nei confronti della realtà umana, che risultano sempre incredibilmente compatibili con la “normalità” di questa famiglia.
C’è una scena molto forte alla fine, in cui il protagonista vomita senza nessun motivo apparente, come se il corpo non riuscisse più a seguire quella mente gelida e capace di controllare tutto, come se solo il suo corpo per un istante capisse.
Sono giorni che continuo a pensarci, c’è qualcosa in questo film che ci riguarda ancora e che, da esseri umani, non possiamo archiviare come irripetibile aberrazione della storia.
Perla
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