LA FORMAZIONE IN PSICOTERAPIA: UN’ESPERIENZA
Caro Papillon,
ad un certo punto, nella lunga formazione di uno psicologo, arriva il momento di scegliere la scuola di specializzazione, che lo abiliterà alla professione di psicoterapeuta. Ma quale scegliere? Ci sono più di 180 scuole in Italia, 80 solo nel Lazio e molte fanno riferimento a orientamenti teorici molto differenti tra loro. L’offerta formativa è variegata, c’è l’approccio dinamico, quello relazionale, quello cognitivista, solo per citarne alcuni. Ricordo di aver trovato una lista di tutte le scuole presenti a Roma e di aver passato un intero pomeriggio a fare m’ama non m’ama, come con le margherite, per vedere cosa rimanesse.
Certo di non voler iniziare una scuola che vedesse l’essere umano come una persona da istruire, ho fatto la mia scelta e ho optato per una scuola Relazionale-familiare. Quella parola, “relazione”, mi piaceva, perché metteva al centro il rapporto che si instaura tra paziente e terapeuta e poi… mi faceva pensare che se qualcosa era andato storto, se la causa della malattia mentale era da ricercare nei rapporti andati male… che la soluzione potesse essere proprio in un rapporto sano e terapeutico?
In questi quattro anni di formazione ho potuto osservare come l’approccio relazionale riconosca l’importanza del contesto familiare nello sviluppo del bambino prima e dell’adulto poi, lo renda centrale e strutturante per l’identità dell’individuo. Secondo questo approccio il malessere ha origine nei rapporti disfunzionali con i caregiver, che si traducono nelle rappresentazioni mentali distorte che l’individuo fa nel corso della vita, degli altri e di sé stesso, e che in qualche modo lo influenzano nei suoi rapporti futuri. Va riconosciuto a questo approccio l’importanza data al rapporto interpersonale malato nell’insorgere e sviluppo delle patologie mentali. Proprio i pionieri di questo approccio furono i primi a parlare di “doppio legame”, cioè il fenomeno nel quale la comunicazione tra due persone emotivamente legate presenta un’incongruenza tra il canale verbale e quello non verbale, cioè quando qualcuno mi dice qualcosa ma allo stesso tempo mi propone (su un piano latente) l’opposto, creando un paradosso (e a quel punto a cosa credo? A quello che provo o a quello che vedo?). Si parla anche di omeostasi familiare, cioè dinamiche disfunzionali tacitamente condivise dai vari membri che stabilizzano la patologia, la quale, si renderebbe manifesta con i sintomi di un membro della famiglia, il cosiddetto “paziente designato”, che spesso è il figlio.
Durante questi anni di formazione ho potuto vedere anche i limiti di questo approccio. È usanza comune a molti terapeuti relazionali fare delle “convocazioni”, cioè convocare i parenti del paziente che si segue: genitori, fratelli/sorelle/ figli, sempre appartenenti al nucleo familiare stretto. Durante queste convocazioni si cerca di far emergere le dinamiche nascoste che opprimono la famiglia, di fargli capire che quello che fanno tra di loro li fa stare male, pensando così di modificare le rappresentazioni che ognuno ha degli altri componenti della famiglia e di sé stesso. In poche parole, si cerca di modificare la famiglia interiorizzata, quindi le rappresentazioni mentali, modificando quella reale.
C’è un però. Un conto è dire rappresentazioni mentali, un conto è dire immagini inconsce. Nella mia esperienza formativa, infatti, ho potuto assistere ad un certo disinteresse nei confronti di un mondo non cosciente e non mi è chiaro se si tratti di non prendere in considerazione il latente o non credere che esista. Mi ha stupito non sentir parlare dei sogni e della loro interpretazione. Le dinamiche sarebbero non consapevoli nel senso di non essere totalmente coscienti, ma automatiche, come quando respiro senza rendermi conto di farlo, e quando me ne accorgo posso smettere o continuare. Non ci sarebbero cioè pensieri non coscienti del quale non mi renderei neanche conto. Questo mi fa pensare che il tutto si avvicini più ad una psicoeducazione.
Nell’approccio relazionale, o almeno nella mia esperienza, il setting (cioè lo spazio e il tempo della seduta) è importante ma non fondamentale. Può cambiare e subire variazioni per diversi motivi. Mi ha stupito vedere che i ritardi dei pazienti o le disdette, che possono essere causati da mille motivi coscienti e non, venissero visti come un semplice dato di realtà. Mi sarei aspettato un approfondimento perché, quel ritardo, fatto quel giorno, dopo quella seduta avrebbe potuto invece avere un senso. Ho notato come ci siano continue incursioni di fatti reali, concreti che a mio avviso compromettono la possibilità di indagare il latente. Un fatto è un fatto, fuori dal setting. Ma dentro quella stanza può acquisire un senso diverso perché è fatto in un rapporto che mette in moto un altro mondo, molto più ricco e profondo e spesso violento. Ricordo delle discussioni sul caso fatte prima della seduta e continuate per minuti, nonostante il paziente fosse arrivato e stesse aspettando. Se il fisioterapista mi riceve qualche minuto dopo a me non cambia nulla. Ma in questo lavoro acquisisce un senso diverso, perché chi viene a studio in qualche modo ha subito l’assenza (affettiva) di qualcuno in un rapporto che è stato importante, penso quindi che sia fondamentale non mettere il paziente nelle condizioni di interpretare quel ritardo come un’assenza, o peggio ancora riproporgliela realmente, soprattutto in un rapporto terapeutico.
Il transfert, cioè tutto ciò che il paziente mette sul piatto della relazione col terapeuta viene preso in considerazione parzialmente. O meglio, ho notato come ci sia una specifica attenzione al transfert positivo ma non a quello negativo. Ricordo una collega emotivamente bloccata di fronte al suo primo paziente. Certo, l’ansia gioca brutti scherzi, ma mi ha colpito vedere come la supervisione si concentrasse su come lei potesse essere più “calda” in seduta. Della freddezza del paziente, il transfert negativo, che bloccava la collega non si è parlato. Come poteva quella collega trovare il modo di essere “calda” di fronte a chi proponeva tutt’altro? Mi ha stupito vedere come non ci fosse l’idea che chi è malato possa essere violento.
Ricordo una supervisione, in cui ho proposto l’interpretazione di un passaggio della seduta con una paziente. E ricordo che mi colpì molto la risposta della didatta “non dobbiamo interpretare, anche se fa molto psicologo”. Mi ha sorpreso perché mi aspettavo proprio un lavoro sulle possibili interpretazioni. Penso che senza l’interpretazione si rimanga su un piano cosciente tolga una possibilità di cura.
Mi rendo conto che è un lavoro dannatamente difficile. Sei solo, ma con tutto te stesso, davanti a uno sconosciuto che sta male e chiede qualcosa, che vuole risposte, spesso senza rendersi conto di quali domande stia facendo. E mentre chiede fa anche l’opposto, resiste e si tira indietro di fronte ad una realtà umana che propone un rapporto diverso, sano, profondo. Perché sa che l’ultima volta che si è giocato qualcosa in un rapporto profondo, non è andata bene.
Arrivato all’ultimo anno mi ha stupito una frase del didatta e direttore della scuola: “noi (terapeuti) ci curiamo attraverso i pazienti, non mettiamoci in testa di curare nessuno”. Chi viene perché sta male e vuole capire perché, non solo non verrà curato, ma curerà noi? Mi ha davvero sorpreso sentire questo in una scuola di formazione in psicoterapia. C’è forse l’idea che la malattia mentale fondamentalmente non esiste o se esiste non ci sia una cura? Quello che c’è, secondo questo approccio, è una serie di ferite (del paziente quanto del terapeuta) che vanno riconosciute, comprese ed accettate, oltre a schemi di comportamento che vanno visti e disimparati.
Non sono d’accordo nel dire che siano i pazienti a curare. I pazienti fanno i pazienti. Mi viene in mente la frase di uno psichiatra, Eugène Minkowski, che provo a ricordare: “avere in mente l’idea di curabilità di fronte al paziente è già di per sé terapeutico” questo è meravigliosamente vero. Questo è quello che avrei voluto sentirmi dire in una scuola di specializzazione. Pensare che sia possibile una cura già mette chi cura e chi si cura di fronte ad un lavoro che è molto lontano dall’ essere un sostegno.
In questo approccio terapeutico c’è un’attenzione particolare alla forma di quel che viene comunicato. Ci è stato detto di modulare il tono della voce, cercando di trovare la giusta maniera di parlare con il paziente perché, secondo i didatti, è quella la modalità da usare in seduta. “Usate un tono di voce più lento e basso, così il paziente sentirà che ci siete”. E la naturalezza? Ho fatto davvero fatica a ritrovarmi in questo aspetto, mi chiedo se l’utilizzo di questa tecnica non comprometta una nostra spontaneità e naturalezza. Poi penso a chi arriva a studio, probabilmente ha creduto a chi gli parlava con il tono giusto, con una certa forma ma poi è l’assenza di contenuto che gli ha fatto male.
Ma l’aspetto che più di tutti mi ha sorpreso, oltre all’assenza di interesse verso il mondo non cosciente, è la rilettura in positivo delle dinamiche familiari. Nei casi che abbiamo visto, l’oppressione di una madre verso il figlio veniva vista come protezione o un’assenza psichica come paura di ledere. C’è l’idea che sia cattivo interpretare dinamiche violente?
Quanti mal di pancia i giovedì sera, dopo le lezioni.
Ho scritto di un solo approccio, ma ci sono tante scuole, tutte diverse. Sembra però che non sia solo l’approccio a cambiare, ma anche come viene visto l’essere umano. Certo, ognuno ha la sua personalità e la sua storia, ma alla base c’è qualcosa di universale. Invece sembra che, in base alla propria scuola di formazione, l’essere umano cambi, perda o acquisisca delle caratteristiche, diventi altro.
Gianluca Ambrosini
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