PADRE NOSTRO. UNO SGUARDO DIVERSO
Padrenostro è un film premiato per il miglior soggetto ai Nastri d’Argento 2021. Un premio meritatissimo. Ho visto il film per caso qualche mese fa, e l’ho trovato veramente bello, sotto tantissimi aspetti, ma la cosa che mi ha colpito in particolare era come il regista sia riuscito a rappresentare il vissuto interno del protagonista, Valerio, un bambino di 11 anni che assiste ad un agguato terroristico al padre magistrato, Alfonso, da parte di un nucleo armato proletario.
Sembra una storia “lontana” (è ambientato negli anni di piombo, estate 1976) ma invece lo sguardo è attualissimo.
Si entra da subito in un’atmosfera rarefatta, la “cappa” della violenza di quegli anni incombe, gli adulti sono troppo presi ad affrontare le proprie ansie e Valerio è “dimenticato”, è solo, e si inventa amici immaginari per sopravvivere a questa solitudine.
Nell’agguato muore l’attentatore, mentre il padre di Valerio non muore, ma l’intera famiglia è preoccupata che l’agguato si possa ripetere e se si può, diventa ancora più assente. E Valerio, un ragazzino di famiglia “borghese”, timido e introverso, trova un nuovo amico, Christian, un po’ più grande e completamente diverso da lui, più sicuro di sé, trasandato, più “proletario”, che ad un certo punto si “materializza” e per tutto il film non si capisce se Christian è reale o è solo una fantasia di Valerio.
Attraverso l’amicizia con Christian, Valerio riesce a “sopravvivere” all’angoscia degli adulti, alla sua stessa angoscia che possa succedere di nuovo qualcosa e riesce anche a trovare un modo per avvicinarsi al padre ed avere un po’ del suo tempo. E questa amicizia, in bilico tra il reale e l’onirico, è come se rappresentasse la possibilità di rifiutare la violenza e superare la contrapposizione di classe e la speranza di poter vivere gli affetti.
Il finale del film non posso svelarlo, per non spoilerare, ma posso dire che regala senso e “calore” a tutto il film. E posso anche dire che il film è tratto da un’esperienza veramente vissuta dal regista da piccolo, che il regista ha trasformato in arte riconciliandosi con la rabbia e la paura nei confronti degli attentatori, raccontando che il rapporto con il “proletariato” (più metaforicamente, con il diverso) ti può salvare la vita e non distruggertela.
Perché ho raccontato tutto questo in questo blog? Innanzi tutto perché mi piaceva raccontare della possibilità di trasformare eventi traumatici della propria vita in arte, della possibilità di non perdere la curiosità e fiducia nei rapporti umani e di non reagire angosciandosi e chiudendosi in sé stessi (come i genitori di Valerio), o con rassegnazione, o con odio o rabbia verso chi ti ha “colpito”. Mi piaceva raccontare di questo artista (il regista) che ha elaborato il proprio vissuto e lo ha reinventato, con fantasia, rifiutando un destino ineluttabile che per luogo comune lo vedrebbe “credere” nella violenza subita come verità dell’essere umano, e lo vedrebbe conseguentemente odiare il suo “nemico”, restituendogli odio e violenza, o averne eterna paura, indirizzando la violenza subita verso sé stesso.
Ma l’altra riflessione che mi è venuta in mente, che forse può apparire forzata, ma che a me suona molto, è il parallelo con quello che abbiamo vissuto (e che stiamo in parte ancora vivendo) con questa pandemia.
Mi suona il parallelo con un “nemico” esterno, che può uccidere o comunque colpire te e la tua famiglia e la reazione di molti adulti, che hanno “dimenticato” i ragazzi e le loro (legittime) ansie, le loro esigenze di rapporto, non li hanno “visti”, troppo presi a gestire le proprie (sempre legittime) ansie. E purtroppo non tutti i ragazzi sono riusciti a trovare la stessa fantasia di Valerio, e cercare il rapporto ovunque fosse possibile trovarlo. E si sono chiusi in sé stessi, senza reazione, magari diventando “freddi” e perdendo la speranza di poter “pretendere” una risposta.
E allora, mi piaceva buttare questo filo, raccontare una storia di riuscita per lanciare un piccolo salvagente a cui potersi appoggiare per prendere fiato e continuare a nuotare cercando la fantasia per reagire, un salvagente per gli adulti, per trovare la forza di guardare i ragazzi e dirgli “tranquillo, io ci sono”, un salvagente per i ragazzi, per avere il coraggio di dire agli adulti “ehi, guardami, io ci sono e ho bisogno che tu ci sia”.
Luigia Lazzaro
Bellissima riflessione, bellissimo articolo e quanta verità sulla necessità di sapere e sentirsi dire: “io ci sono”, per poter avere sempre una speranza.
Bellissima recensione. Brava