“L’ETERNITA’ IN UN BARATTOLO”
In questi giorni mi è capitata tra le mani la riflessione di Daniel Pennac sugli studenti che “vanno male”, quelli ritenuti “senza avvenire” che, troppo spesso, la scuola lascia indietro, condannandoli all’insuccesso scolastico. L’autore li rappresenta come una “cipolla” che entra a scuola con “svariati strati” di insoddisfazione e frustrazioni accumulati nel tempo, portati in classe come un fardello nascosto nello zaino, pesantissimo e incompreso dagli adulti. Mentre leggo le parole di Pennac, inevitabilmente il pensiero va agli studenti del mio Istituto che, alla fine di quest’anno scolastico, non sono stati ammessi alla classe successiva. Al termine degli scrutini, mentre nel mio ufficio della vicepresidenza arrivavano, uno dopo l’altro, i freddi moduli compilati con i nomi dei “bocciati”, insieme ad un evidente malessere saliva con forza una sola domanda: <<Perchè?>>.
Le risposte dei colleghi a cui chiedevo di spiegarmi le ragioni di queste bocciature, che mi sembravano eccessivamente numerose, vista la complessità dell’anno scolastico trascorso, erano sempre le stesse: “non ha voglia di studiare”, “ha sbagliato scuola”, “aveva troppe lacune”. In nessuna di queste risposte c’era la visione dell’alunno, la comprensione o la ricerca di cosa non avesse funzionato nel processo formativo, dove la scuola poteva aver sbagliato, cosa si era perso nella relazione con lo studente o con la famiglia. Non c’era nessuna valutazione ma solo un giudizio negativo, del quale l’alunno era l’unico responsabile.
E’ stato un anno scolastico durissimo, tra quarantene, lockdown e DAD il rischio di vanificare l’azione didattica era dietro l’angolo ogni giorno anche per gli studenti più metodici o motivati allo studio, figuriamoci per gli altri! Mantenere o costruire il gruppo classe a distanza, soprattutto nelle classi prime che iniziavano un nuovo percorso scolastico e di vita, senza conoscersi e senza poter interagire tutti insieme, avrebbe richiesto da parte dei docenti una rivoluzione didattica e una capacità di essere affettivamente presenti che non tutti hanno avuto.
Ma davvero in un anno di pandemia l’obiettivo formativo della scuola poteva essere, ancora, solo la trasmissione dei saperi e delle competenze? Come se gli alunni fossero dei contenitori da riempire, un vuoto a perdere, di cui non si conosce il vissuto o la realtà fuori dall’aula, né si comprende che quel vissuto e quella realtà hanno un peso fondamentale nel determinare il successo o meno dell’ apprendimento. E poi, le famose “competenze” sono legate solo ai saperi, alle nozioni? Resistere fisicamente e psicologicamente ad una pandemia mondiale, sopravvivere al distanziamento delle relazioni, alle limitazioni della libertà, alle difficoltà familiari magari amplificate dalla convivenza forzata, all’impossibilità di nuovi incontri, di fare sport, di vivere la “normalità”, non è un’esperienza formativa terribile e assoluta a quell’età? Noi docenti abbiamo veramente visto e compreso cosa stava succedendo a quei ragazzi che si nascondevano dietro una telecamera spenta? Che rinunciavano ad interagire, ad ascoltare, che si autoescludevano? Forse no.
Certo la scuola non può da sola caricarsi di tutte le responsabilità, né titanicamente pensare di risolvere ogni problema culturale o sociale, ma io da docente il peso della bocciatura di quei ragazzi che “vanno male” lo sento tutto e so che trovare delle risposte a queste domande spetta anche a me, perché come dice Pennac: <<(…) quegli uomini e quelle donne avranno comunque passato uno o più anni della loro giovinezza seduti di fronte a noi. E non è poco un anno di scuola andato in malora: è l’eternità in un barattolo.>>
Sara Lazzaro
Mi sembra che nella scuola oggi manchi proprio il confronto critico sui temi delineati. Le risposte banali, vecchie, consunte dall’uso che alcuni professori continuano a dare senza interrogarsi, generano malinconia ed anche un po’ di rabbino. Come se una spugna avesse cancellato decenni di esperienze e di riflessioni. Credo che la responsabilità maggiore sia dei dirigenti che non svolgono più il compito di orientamento e guida della didattica. Quello importantissimo di autoanalisi dei risultati scolastici è mi fermo qui. Voglio ancora sperare in un futuro diverso
La scuola che basa le proprie valutazioni, o giudizi come scrive Sara, esclusivamente sui voti e sui risultati, la scuola del ”di più é meglio” che insegna la competitività e premia il successo, per quanto possa affannarsi nell’inseguire la prestazione “whatever it takes” o rimirarsi nell’immagine dell’alunno vincente non é affatto una scuola esclusiva.
É una scuola escludente.
Non si tratta di tifare per forza gli indiani o di promuovere il sei politico, é che a volte per alcuni ragazzi l’unico modo per uscire dalla competizione é il ritiro..
E allora si che si può parlare di “scuola sbagliata”..