DORMI, FATTI I FATTI TUOI!
Fare immagini o essere immagini, qual è la differenza? Ho ripreso questa fotografia di quattro anni fa dopo una piccola ricerca di storie create “sulla strada”. Rivedendola mi colpisce la ragazza in posa che sorride con uno dei meloni caduti dal container del tir che si era rovesciato lungo la superstrada per Siena qualche ora prima. Chissà se ha pensato lei stessa di farsi ritrarre così o se le era stato proposto. Alla sua sinistra un’altra donna sta facendo una foto alla catasta di frutta e al camion sdraiato su un fianco come un pachiderma. I coni intorno, i cartelli di deviazione e il sughero a terra dicono che tante persone sono già passate su quella scena allestendola ora dopo ora con nuovi indizi. Se chiudi gli occhi riesci anche a vedere la luce blu intermittente del lampeggiante dell’ambulanza che arrivando all’alba da nord lungo la strada in salita si appoggia a fasi alterne lungo il guardrail, più difficile trovarla sulla corteccia e le foglie degli alberi di noce ma se ti concentri ce la puoi fare. Se chiudi gli occhi vedi anche quelli dell’autista che ora riposa sereno in un letto d’ospedale; occhi pieni di paura quando ha tentato di riprendere il volante mentre la vettura in un istante ha sbandato. Per saperne il motivo bisognerà aspettare che si risvegli e racconti prima all’ufficiale incaricato e poi alla moglie e la figlia arrivate da Bari cosa è successo. Ma se vuoi nel frattempo puoi inventarlo tu e farle arrivare anche da Cracovia. Comunque, se chiudi gli occhi vedi tutto, forse anche il mare. Il nostro fare immagini è un modo di trovare una chiave di accesso o un tentativo di allontanarci? Quale sarebbe il giusto modo e chissà se c’era qualcuno dietro di me a scattare la sua foto portandomi nella storia come in un’infinità matrioska. Se oggi mi trovassi davanti a quella scena rifarei la foto e perché? Per chi? Cercherei di prendere come molti altri fecero i meloni ancora freschi in quel banchetto gratuito preparato dal caso dopo essermi accertato che il conducente non fosse più in pericolo o nemmeno mi fermerei? Ma più di tutto mi chiedo che differenza ci sia tra il momento in cui ci troviamo di fronte ad un fatto che ci colpisce o proviamo una forte emozione e decidiamo di trasformarli in una traccia e quando invece li lasciamo dentro di noi; è davvero qui che si presenta il bivio “tra la memoria e l’oblio”? Fino a qui siete stati portati dentro un racconto che facilmente puó essere pensato come una scena, ma cosa succede invece quando dentro una fotografia ci siamo noi stessi o qualcuno che conosciamo personalmente? Riusciamo ugualmente a concepirla come una scena, un pensiero, come una scrittura inventata da qualcuno che era al di là dell’apparecchio similmente a cosa potremmo pensare se leggessimo una frase scritta o vedessimo un volto disegnato o scolpito? Sì, penso sia possibile ma non è semplice, e non lo è per vari motivi, primo tra tutti il fatto che per noi, oggi, la fotografia è quasi sempre intesa come una riproduzione della realtà e pur essendole stati attribuiti nel tempo diversi significati nel pensiero comune, più o meno da cento anni, essa è un documento.
Ma cosa stiamo vivendo veramente in quest’ultimo decennio in cui le tecnologie digitali hanno permesso l’invenzione dei così detti social network nei quali ogni giorno facciamo girare milioni di contenuti. Alcuni recenti studi hanno dimostrato che l’umanità negli ultimi 9 anni ha prodotto una quantità di dati 80 volte superiore a ciò che siamo stati capaci di produrre dalla preistoria al 2012. (Per dati si intende ogni tipo di contenuto e produzione umana). È un fatto sconcertante che dovrebbe portarci a fare delle riflessioni sul senso di ciò che facciamo e su come lo facciamo e la fotografia rappresenta oggi, nel bene e nel male, il mezzo più utilizzato nonostante sia in proporzione il meno studiato. Per intenderci è come se il mondo intero parlasse una stessa lingua senza mai averne potuto studiare una grammatica. Ma se è vero che riusciamo a parlare chi lo dice che dobbiamo studiare per forza? Alcuni esperti sono di pareri opposti. Da un lato c’è chi come il docente di storia del cinema Flavio De Bernardinis sostiene che “oggi l’uomo vive una condizione permanente che non è né dello sguardo né della visione ma è quella del farsi vedere; gli uomini non ricevono nulla in cambio anche perché nulla danno in cambio”. Altri come lo spagnolo Fontcuberta pensano invece che in questa era digitale la diffusione massiccia della fotografia stia permettendo una rapida emancipazione ed un aumento della consapevolezza di noi stessi in rapporto alla nostra immagine. Personalmente non so ancora dire se questo sia vero ma studiando ogni giorno molti aspetti di questa faccenda sono portato a pormi alcune domande. Come mai sentiamo quotidianamente il bisogno di mostrarci al mondo arrivando a condividere su questi spazi virtuali addirittura quello che mangiamo o qualunque altra cosa ci capiti e perchè crediamo che l’immediatezza della condivisione sia un valore in più? Ed inoltre il fatto che tutto questo sia a costo zero è veramente un dato positivo o è un elemento che ci porta a non meditare delle scelte sui nostri contenuti? È strano, ma sembra quasi che in questo modo si vada a costruire una specie di eterno presente, una sorta di tempo senza tempo. Mentre scrivo ripenso a quando da bambino, una sera, vidi mia nonna baciare due foto in bianco e nero che teneva incorniciate sul comodino prima di dormire; una era dei genitori e l’altra del marito ormai morti da tempo. Al mio “Nonna ma che fai?” rispose “Dormi, fatti i fatti tuoi!”. Non ricordo i pensieri che feci all’epoca ma iniziando ad appassionarmi all’arte e alle immagini e contemporaneamente a farle, quel gesto incomprensibile nel tempo si è andato a sommare alle frasi ascoltate dalle persone e piano piano tutto ha avuto un senso. “No io vengo sempre male in foto”, “fotografa lei che è fotogenica”, o ancora “perché state facendo queste foto, guarda che dovete chiedere il permesso!”. Quante volte ho sentito dire negli anni che “un bravo fotografo deve saper catturare l’attimo”. Chissà da dove arriva questa frase che tutti credono essere una grande verità senza aver mai studiato nulla di fotografia.
Non sembra che ce ne rendiamo bene conto ma le immagini hanno un potere enorme e probabilmente non le sappiamo ancora manovrare al meglio ma queste nel tempo cambiano con noi e più saremo in grado di esprimerci con esse e saremo consapevoli che attraverso queste passiamo idee, più avranno uno spessore.
Se pensiamo a ciò che accadeva a Parigi nel 1839 quando la fotografia fu brevettata è facile pensare che siamo in tutt’altra epoca ma forse, a pensarci bene la situazione del vissuto non è poi così diversa; quella fotografia permise per la prima volta alla gente comune di avere una traccia di esistenza, cosa che fino a quel momento era possibilità esclusiva dei nobili e del clero grazie alla commissione di un’opera pittorica allora costosissima. Il pittore veniva pagato per mostrare il prestigio di qualcuno attraverso una messa in posa. Forse noi, con le nostre tecnologie stiamo compiendo un processo simile con una quantità di immagini milioni di volte superiore; la differenza sostanziale è che al momento le nostre storie sono quasi sempre scritte da noi stessi e vivono su una rete virtuale. Nel 1845 dovettero rincorrerlo sul marciapiede quell’uomo che se ne andò via dallo studio fotografico di Nadar in Boulevard Des Capucines dopo aver lasciato i soldi sul tavolino vicino alla porta d’ingresso. Non aveva idea di cosa avrebbe trovato ed era semplicemente andato a vedere il fenomeno da baraccone consigliato da un amico; stando davanti alla grande scatola di legno con la lente aveva sentito la voce dell’altro che da sotto al telo nero gli diceva di stare ben fermo col busto, un secondo dopo aveva visto l’esplosione della lampada ed era rimasto contento, aveva pagato per questo, per un botto e una scintilla. Chissà cosa può aver provato qualche ora dopo rientrando nello studio e vedendo per la prima volta nella sua vita l’immagine del proprio viso stampato su un pezzo di carta. Ma in fondo, cosa succede veramente ogni volta che decidiamo di fare un’immagine e cosa chiediamo a chi la vedrà; ci interessa sapere tutto questo?
Sono passati quarant’anni dall’uscita di un film cult come Blade Runner e ripensandoci torna alla mente Rachel, la bella replicante che per dimostrare al poliziotto di essere umana mostra lui le polaroid di quando era bambina.
Filippo Trojano
E’ una ricerca molto interessante e bella!
Grazie mille, molti spunti utili di riflessione!