C’era una volta a scuola lo sportello di ascolto, in una stanzetta piccola piccola, con una porticina piccola piccola
…loro chiedevano, io c’ero…
Ogni mercoledì partivo prestissimo, attraversavo mezza Roma e mezza provincia e finalmente arrivavo a scuola. La prima cosa che mi attendeva erano le “crocette”, il sistema di prenotazione affisso sulla porta con i cui ragazzi liberamente e in modo anonimo si potevano prenotare per il colloquio. Ho sempre osservato quei piccoli segni scritti con grafia leggera o le crocette scure e incise nella carta o crocette cancellate, riscritte e cancellate ancora.
Poi aspettavo che bussassero alla porta. A volte era un viso nuovo, a volte un viso conosciuto che mi aggiornava su quello che gli stava succedendo, a volte un viso con le lacrime, a volte più volti che ne accompagnavano un altro. A volte veniva qualcuno per disdire ma poi restava.
Ero lì per ascoltare i ragazzi, non a caso si chiama comunemente sportello di ascolto quello che nelle direttive ministeriali prende nome di Centro di Informazione e Consulenza CIC cioè un insieme di attività di promozione della salute.
Quindi ascoltavo le loro storie…
Ma non ero li solo per questo, ero lì per rispondere a tutti ma soprattutto a quelle situazioni di disagio prima che queste interferissero con i processi di crescita dei ragazzi. Potevo lavorare con gli insegnati, con le classi, potevo indirizzare ai servizi sociali o per la salute mentale.
Ansie, crisi, difficoltà nello studio, delusioni d’amore, ricerca di se stessi, incomprensioni con le famiglie, sfide agli insegnanti, separazione dall’infanzia, separazione dall’adolescenza, aspettative familiari vs aspettative personali, sentirsi bellissimi, sentirsi bruttissimi, amici nuovi e amici vecchi, rimanere nel passato, stare già nel futuro, credersi dei giganti, credersi insignificanti, sentire troppo, non sentire niente…questo è solo una parte di quello che i giovani chiedono a chi ha più esperienza di loro.
Ma perché venivano da me a chiedermi tutte queste cose? Perché ero lì ogni settimana? Solo questo attirava e rassicurava i ragazzi a fidarsi? Che fossi fisicamente lì? Basta che i corpi condividano uno spazio per sentire che ci si può raccontare, si può chiedere una mano, per sentire che le domande non sono senza risposta? Che cosa significhi stare insieme veramente, oltre lo spazio che ci può avvicinare o dividere, lo abbiamo riscoperto o scoperto tutti dal 9 marzo in poi quando tutte le attività didattiche in ogni scuola di ordine e grado sono state sospese a seguito delle misure di contenimento dell’epidemia da Covid-19.
Iniziava la quarantena e con essa prendevano vita nuovi modi di stare insieme e di stare nel mondo, o almeno iniziavamo tutti a sperimentare. La scuola non poteva fermarsi per una serie infinita di ragioni e gli istituti hanno tentato di convertire la didattica tradizionale in DAD, la didattica a distanza, attraverso l’utilizzo di piattaforme multimediali, grazie all’enorme sforzo riorganizzativo dei docenti, degli studenti e delle famiglie.
Anche lo sportello d’ascolto non poteva interrompersi, non solo per il momento di difficoltà nuova che tutti stavano vivendo, ma perché ciò che fa la differenza è la certezza di rapporto, quindi un modo, per superare lo spazio che mi divideva dagli studenti, lo dovevo trovare. E non solo io l’ho fatto ovviamente: numerosi progetti di consulenza psicologica sono passati alla formula “on line”. E’ quindi iniziato un nuovo sportello d’ascolto in videochiamata: ho rivisto volti già conosciuti, ne ho conosciuti di nuovi, tutti alle prese con i problemi di prima o con i problemi nuovi. Siamo arrivati fino alla fine della scuola, per qualcuno fino alla maturità e la fine del liceo.
Abbiamo tenuto insieme ai ragazzi un filo, il rapporto c’è stato, loro chiedevano, io c’ero e rispondevo ancora.
(il cic al tempo del coronavirus – parte prima)
Maria Giubettini
Comments (1)
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…loro chiedevano, io c’ero…
Racconto bellissimo….mi sono emozionata…