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“Un tempo lento e di qualità” A colloquio con la pedagogista Marta Tropeano

“Un tempo lento e di qualità” A colloquio con la pedagogista Marta Tropeano

Partendo da uno dei punti ritenuti fondamentali nella Legge n.170 del 2010, “disagi relazionali ed emozionali” ho chiesto a Marta Tropeano, pedagogista, insegnante e scrittrice di favole, che ruolo hanno le emozioni nei processi di apprendimento:  il termine “emozione” deriva dal latino e-movere cioè far uscire, spostare, smuovere. Le emozioni hanno un ruolo importante nelle nostre esperienze di vita e di lavoro, soprattutto a scuola per i bambini. Sarebbe auspicabile oggi che le emozioni fossero considerate come naturali e umane, e per questo accettate e non gestite e/o controllate… Se adeguatamente supportate dalle insegnanti, le emozioni possono trasformarsi in risorsa, al pari del contenuto dell’azione formativa, perché l’alunno non solo pensa ed elabora, ma “sente” e partecipa. Una scuola che fa entrare le emozioni in classe, che “approfitta” della loro naturale presenza, diventa un’istituzione che si impegna su un fronte ampio, in cui gli obiettivi diventano di tipo generale perché non riguardano solo l’istruzione in senso classico, ma la «formazione umana»…”

A questo punto mi viene da fare una riflessione su quanto molto spesso ho sentito pronunciare, rivolgendo certe affermazioni anche a bambini molto piccoli, frasi del tipo : “ormai sei grande per fare i capricci, sei un ometto”, oppure : “le signorine non si comportano così e poi diventi brutta se piangi”.

Qui si potrebbe aprire un altro interessantissimo capitolo sul fattore sesso come ulteriore elemento differenziale in alcune difficoltà manifestate dai bambini, su quanto possa influire, in alcuni casi, una certa cultura dominante che ci etichetta, fin dai nostri primi momenti di vita, in base al nostro genere.

Mi chiedo perché culturalmente debba esserci una sorta di stigmatizzazione sulla modalità di esternare le emozioni, tanto da voler infondere nel bambino che le prova, un senso di inadeguatezza che si esprime nel “non sei o non sarai abbastanza “uomo” se ti comporti così” e nel “non sei e non sarai abbastanza bella”.

Parliamo di bambini, perché “adultizzarli” o farli sentire a disagio per qualcosa per la quale stanno chiedendo il nostro aiuto o la nostra attenzione?

A proposito di questo, la Tropeano :..” Incontro sempre più spesso genitori e insegnanti che pensano che il bambino debba crescere, rendersi autonomo il più velocemente possibile (la cosiddetta corrente pedagogica americana del Precocismo), senza rispettare i suoi tempi di autonomia individuale e puntando a considerarlo come qualcuno a cui manca qualcosa.

Ci dimentichiamo che il bambino non è un adulto ma al contrario un “Futuro adulto”…”,  ..”la didattica e la pedagogia sono sparite dalle istituzioni scolastiche lasciando l’applicazione solo alla diagnosi medica e quindi al Servizio Sanitario Nazionale…”, ..”Purtroppo oggi assistiamo ad un incremento delle diagnosi di DSA e questo può essere ricollegato ai cambiamenti socio-culturali e all’inversione di paradigma che c’è stata e che ha messo al centro l’aspetto sanitario e non pedagogico.

Vorrei porre qui una riflessione in merito alla legge n.170 del 2010 che disciplina “ Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” mettendo l’accento sulle “adeguate” capacità cognitive ma con “rallentamenti” nei processi di apprendimento. Ma forse la domanda da porsi è questa: “perché i bambini non imparano con i metodi tradizionali?”

Quest’ultima domanda ci costringe a riflettere su quanto sia fondamentale prendere in considerazione le caratteristiche individuali di ogni persona che, forse, esprime in modo unico le sue difficoltà così come le proprie qualità. Per questo parlare di “metodi tradizionali” risulta dissonante. Perchè non prende in considerazione molti (troppi) fattori. “Dovremmo, forse, mettere in discussione la qualità dei programmi scolastici”

Alcune affermazioni della pedagogista mi hanno riportato ad analizzare altri punti fondamentali della Legge n.170 del 2010: “Formare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori, Favorire la comunicazione tra scuola, famiglie e servizi”. Si tratta di elementi a mio avviso imprescindibili ma la realtà è che molto spesso accade di non riuscire ad incontrarsi per portare avanti un progetto comune che abbia come centralità la qualità della vita dei più piccoli, pensando che fare una diagnosi risolva il problema (deresponsabilizzando così tutti quelli che devono occuparsene).

Per fare tutto questo occorre quel ”Tempo lento e di qualità”, che molto spesso, anche a causa dei ritmi frenetici della vita degli adulti, viene a mancare.

Mi rendo conto che alla fine di ogni articolo sono sempre di più le domande che le risposte.

E mi auguro di continuare ad incontrare sempre più persone che, come me, non smettono mai di voler approfondire, ricercare, conoscere.

Nel ringraziare personalmente la pedagogista Marta Tropeano per la disponibilità e la generosità con la quale ha condiviso le sue esperienze, di seguito le sue considerazioni finali:

Ringrazio il progetto Papillon.

Come insegnante e come pedagogista ho cercato sempre di considerare centrale la  “relazione di apprendimento come fattore di integrazione scolastica e sociale.”

Leggendo e condividendo in pieno l’articolo sui disturbi specifici d’apprendimento (dsa) della logopedista dott.ssa Valeria Verna, mi è venuta in mente una riflessione sulla parola Inclusione. E’ una parola che racchiude in sé tanti significati ed è al tempo stesso una sfida aperta che ci troviamo a vivere in un tempo, questo della globalizzazione, dove teoricamente le barriere, i confini, i limiti dovrebbero essere crollati e che, invece, sembrano imporsi con maggiore forza e determinazione. Penso che il progetto Papillon si collochi come “spazio emotivo comune” dove come una mappa emotiva guida sia noi professionisti ma anche genitori, insegnanti, giovani e adulti verso la bellezza e la diversità comunicativa“.

Valeria Verna

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