Tutta colpa del virus?
Quotidiani, periodici, servizi televisivi, allarmi sui social, non fanno che parlare dell’aumentato malessere psicologico degli adolescenti durante la pandemia: insonnia, ansia, depressione, isolamento sociale, autolesionismo, tentati vi di suicidio.
Ma siamo proprio sicuri che la colpa sia tutta del maledetto virus?
Certamente restare chiusi in casa davanti a un computer non è un bel vivere. Dover rinunciare a quei rapporti con i coetanei che nell’adolescenza sono il sale della vita, non è facile. Ma può questo di per sé portare a patologie tanto gravi?
Non sono uno psicologo e non so rispondere con certezze scientifiche a questa domanda e allora rispondo con un’altra domanda: non sarà che la pandemia ha semplicemente portato alla luce qualcosa che era nascosto agli occhi di adulti distratti? Non sarà che l’isolamento forzato è stato il fattore scatenante di un malessere che covava da tempo dietro la porta chiusa di una stanzetta? Forse, avendo i propri figli sotto gli occhi tutto il giorno, i genitori si sono resi conto di qualcosa prima meno visibile perché vissuto per buona parte della giornata lontano dal loro sguardo e, finalmente, hanno chiesto aiuto.
C’è poi un altro fattore da considerare. In un incontro nei corridoi della scuola alla mia banale domanda “Come va?”, una studentessa ha risposto“Professoressa, sono triste!”. Le ho risposto che lo siamo tutti in questo momento, non può essere altrimenti vista la situazione che stiamo vivendo. La ragazza in questione sta benissimo, va bene a scuola, le piace studiare ed è molto intelligente e profonda.
Da questo piccolo scambio mi è nata un’altra domanda: la tristezza degli adolescenti è malattia? Gli adulti non sanno come rispondere a quegli sguardi un po’ spenti, e pensano a un disturbo che va curato ricorrendo magari a qualche antidepressivo. Perché non possono accettare che i loro figli siano tristi? Gli hanno costruito una realtà fondata sulla soddisfazione: gli hanno regalato l’ultimo smartphone e abiti firmati facendo anche sacrifici e ora scoprono che quel che gli manca sono i rapporti umani. Mi viene quasi voglia di ringraziare il maledetto virus! Mai come in questo momento c’è stata tanta voglia di scuola!
In realtà i ragazzi che mi preoccupano di più sono quei pochi che tristi non sono, quelli che dicono che non è un problema starsene a casa da soli davanti a uno schermo. Penso che lì ci sia qualcosa che non va perché al posto di una sana tristezza, manifestano una freddezza allarmante.
Gli adolescenti portano ogni giorno nella scuola reale o in quella virtuale la loro vita. La scuola, più ancora dei genitori dai quali cercano autonomia, dovrebbe dare risposte alle loro domande nate dalla curiosità per un mondo che gli si apre davanti, ma che a volte sono vere richieste di aiuto perché di fronte a loro, al contrario, si alza un muro. In alcuni casi si tratta di un malessere più o meno grave, ma ci sono anche gli interrogativi di chi sta cercando un senso a quel che sta vivendo.
Qui si apre un altro capitolo: la formazione degli insegnanti. Quale dovrebbe essere la preparazione di chi deve mettere le mani su un materiale così delicato e a volte molto fragile? Non basta conoscere a fondo la propria disciplina, tanto che sono stati istituiti corsi universitari appositi di Scienze della formazione. Ma possono titoli e specializzazioni, se non accompagnati da un reale interesse per l’altro, fare un buon insegnante?
La scuola non è fatta soltanto di tecnica didattica, è fatta soprattutto di rapporti umani e se non riusciamo ad avere un coinvolgimento vero e profondo con i nostri studenti il nostro lavoro è destinato a fallire.
In ogni classe c’è qualcuno che mostra un disagio più o meno evidente, ma ci sono anche quelli che sono sanamente tristi e penso sia fondamentale far loro comprendere che quella tristezza è una ricchezza, che si può, si deve soffrire per qualcosa che ci opprime senza per questo sentirsi malati, che quella tristezza è la manifestazione di una sanissima sensibilità. Ma è necessario perché non si confondano che qualcuno glielo faccia comprendere.
Negli scritti di questo blog si è parlato dello sportello di ascolto presente in molte scuole che svolge la funzione di “ascoltare”, appunto, chi chiede aiuto. Funzione importantissima quella dell’ascolto, ma oltre che ascoltare, bisogna saper rispondere. E rispondere non è facile perché non sempre c’è chiarezza su quali siano le risposte giuste. Succede poi che chi avrebbe più bisogno di aiuto faccia fatica a chiederlo e magari va allo sportello chi è soltanto triste e non sa perché, scambiando la propria tristezza per malattia.
Non è nelle mie capacità fornire risposte, compito che lascio agli specialisti per occuparmi di quanto può fare un insegnante. Alcuni colleghi, più o meno sconsolati, risponderebbero che c’è da portare avanti il programma, non c’è tempo per affrontare tutti i problemi degli adolescenti! È vero, il tempo non c’è, ci è stato sottratto in anni e anni di tagli di tempi oltre che di risorse. Ma nell’attesa che la politica si renda conto dei propri errori potremmo rispondere alla logica dei tagli tagliando una parte del programma e reinventando un tempo da spendere nella relazione con gli studenti. Perché non è importante la quantità degli apprendimenti ma la loro qualità.
Qualcuno in questo periodo di pandemia ha scritto su un muro “We won’t return to normality, because normality was the problem”. Come giustamente afferma Sara Lazzaro nell’intervista pubblicata su questo blog, è necessario “cambiare paradigma”. La scuola non può, non deve tornare alla normalità, per questo è necessario unire le forze per costruire un nuovo che risponda alle esigenze degli adolescenti, che gliele faccia scoprire perché alcuni non sanno neanche di averle. Un nuovo che potrebbe anche cancellare la stanchezza di insegnati schiacciati da una logica burocratica fatta di mille inutili carte da riempire e che offusca il loro fondamentale ruolo di formatori. Potrebbe far scoprire che l’insegnamento è una bellissima professione.
Mariantonietta Rufini
Grazie!!!
Che bello questo intervento….?