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SQUID GAME

SQUID GAME

Squid Game, il gioco del calamaro, è una serie televisiva sud coreana che ha avuto un enorme successo in tutto il mondo

La trama è tanto semplice quanto crudele: molte persone, 456, partecipano ad una serie di giochi per bambini con lo scopo di guadagnare tanti soldi sapendo che ci sarà soltanto un vincitore. Chi viene eliminato sarà ucciso e non ci si può ritirare dal gioco. 

L’interpretazione che ci fornisce lo stesso regista, Hwang Dong-hyuk, è una critica al capitalismo globale moderno ed alle disuguaglianze che questo comporta, che costringe milioni di persone ad una lotta per la sopravvivenza. Senza andare molto lontano da casa nostra, basti pensare ai tanti immigrati che quotidianamente rischiano la vita per fuggire da un paese in guerra o più semplicemente per non morire di fame o di malattia. O ai paesi poveri che non possiedono il vaccino per potersi difendere dal covid. E se in quest’ultimo periodo ci si preoccupa di far arrivare i vaccini in questi paesi, non è perché stanno morendo migliaia di persone ma perché non ci conviene che si ammalino in quanto alla lunga contagerebbero anche noi. C’è da rabbrividire! 

Ma io oggi voglio affrontare SG da un’angolazione diversa, perché si è fatto un gran parlare circa la pericolosità di far vedere certe scene agli adolescenti e soprattutto ai bambini. Chiariamo subito una cosa: non è sicuramente adatto ai bambini perché è violento, crudele, mostra in modo estremo la perdita della realtà umana, la dinamica violentissima del mors tua vita mea, e quindi non è opportuno che i bambini lo vedano perché si angoscerebbero. Ma la cosa che mi ha colpito sono state le argomentazioni portate a suffragio della giusta opinione di sconsigliare se non proibire la visione ai più giovani. 

Facciamo un passo indietro e torniamo alla serie televisiva perché a mio avviso il regista sceglie non a caso il gioco dei bambini, facendolo fare agli adulti, per rappresentare cosa accade quando si perde la fantasia o, per dirla in altre parole, quando si perde il bambino interno. Sceglie proprio il gioco dei bambini togliendo la fantasia e mettendoci l’utile, il gioco non serve più per divertirsi, per stare con gli altri, ma è finalizzato ad un’utile, a vincere denaro e diventare ricchi. Ed è molto ben rappresentato come l’utile, la razionalità, quando si infila nel rapporto interumano, lo stravolge. L’altro perde la sua dimensione umana per diventare “qualcosa” che serve per ottenere qualcos’altro. SG ci dice di come talvolta si diventi adulti annullando la dimensione irrazionale di fantasia caratteristica del bambino diventando così freddi, cinici e calcolatori. 

Dicevo prima che mi ha molto meravigliato leggere di tanti colleghi che giustamente esortavano i genitori a stare vicino ai bambini mentre vedevano certe scene violente ma la cosa strana è che alcuni dicevano che avrebbero dovuto spiegare ai figli che quelle scene non erano realtà ma frutto di una finzione. Altri hanno detto che c’è il rischio che i bambini replichino, imitandoli, i gesti violenti.

Ma non avete visto che per i bambini è sufficiente avere un pezzo di legno per farlo diventare un’astronave piena di marziani, la Red Bull di Verstappen, la spada del cavaliere che salva la fanciulla, una nave che solca gli oceani, ecc. ecc.? Cosa penserebbe il bambino della madre che gli dicesse “guarda tesoro che è un pezzo di legno, non è la Red Bull…” penso che il bambino si spaventerebbe e comincerebbe a pensare che la madre non ha tutte le rotelle a posto!

Oppure provate a pensare al papà che dice alla bambina di non uccidere la compagna che ha perso a campana, spiegandole che Squid Game è una finzione.

Dietro le preoccupazioni di molti colleghi c’è l’idea che lo sviluppo umano avvenga per apprendimento ed imitazione. Ovviamente possiamo pensare che per quanto riguarda certi comportamenti o certe abilità questo sia vero. Pensiamo ad esempio quando dobbiamo imparare un determinato sport, certi movimenti, cerchiamo di imitare quelli del maestro. Ma se estendiamo questo discorso anche alle dimensioni più profonde, non ci siamo proprio perché così si negano l’identità e la fantasia del bambino. Quando si equipara l’acquisizione di certe abilità comportamentali all’intenzionalità, si mettono insieme le pere con le mele. Fare del male ad un altro bambino non è frutto dell’imitazione di un gesto ma presuppone una intenzionalità violenta. 

Ovviamente non voglio eludere il discorso dell’emulazione, così evidente negli adolescenti in tante situazioni quali ad esempio l’anoressia, il cutting, le condotte violente, ma è chiaro che deve esserci un “terreno fertile” affinché queste emulazioni si verifichino. Discorso ben diverso e ben più serio riguarderebbe l’identificazione introiettiva, dinamica patologica non cosciente che non si realizza nei comportamenti manifesti ma nel pensiero non cosciente. E non insorge di certo dopo aver visto un film! Ma il discorso sarebbe troppo lungo da affrontare in questa sede. 

Ho sentito anche dire che i genitori dovrebbero educare all’empatia perché i bambini non distinguono il bene dal male e vedere certe scene comporta il rischio che non si formino una morale. Beh no qui non ci siamo proprio! SG, giustamente, fa intendere esattamente il contrario! Non c’è da educare, insegnare ma semmai c’è da non distruggere la dimensione di fantasia del bambino e saper rispondere con altrettanta fantasia alle sue richieste.

Ormai c’è un proliferare di interventi miranti all’educazione: si va dall’educazione sessuale, all’educazione delle emozioni, a quella dell’empatia e potrei andare avanti. Ma che idea c’è del bambino e degli esseri umani in generale, dietro questi interventi?

Perché bisogna educare? Quando parliamo di fantasia, empatia, affetti ed emozioni non c’è da educare proprio niente, non sono cose che si insegnano o che si gestiscono con la razionalità. 

C’è semmai da chiedersi come mai questi affetti ed emozioni siano talvolta così violenti e senza apparente rapporto con la realtà, oppure completamente assenti ed allora penso che la causa sia da ricercare nel pensiero non cosciente, in quell’irrazionale che evidentemente si può ammalare o andare completamente distrutto, come nel caso della nostra serie televisiva. Ed allora va curato o ritrovato ma non educato. L’educazione è un contenimento, un controllo, una gestione di qualcosa che si ritiene sostanzialmente immodificabile. L’idea è che la ragione deve tenere a freno, mitigare, orientare la dimensione irrazionale sottostante che è considerata immodificabile e animalesca e pertanto è della ragione stessa che ci si deve occupare per rendere “socievole” l’essere umano. SG nella sua crudezza ci propone giustamente proprio l’opposto.

Ciò che il regista, forse inconsapevolmente, ci dice è che in questa società l’adulto rischia di essere tale per la perdita della dimensione irrazionale, di fantasia, di gioco. È l’adulto che deve recuperare il proprio bambino interno, distrutto dalla razionalità. E invece si vuole educare, cioè portare il bambino all’adulto e non viceversa. Ricordo ancora una volta la celebre frase di Picasso: a quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino. 

Marco Michelini

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