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POVERA PSICHIATRIA, COME TI SEI RIDOTTA!

POVERA PSICHIATRIA, COME TI SEI RIDOTTA!

Oggi vorrei tornare su un tema che abbiamo più volte accennato su queste pagine prendendo spunto da un grave episodio, quello accaduto la sera del 25 gennaio a Martinengo, un comune nella provincia di Bergamo, dove la signora Caryl Menghetti, che in passato era stata sottoposta ad un TSO (trattamento sanitario obbligatorio), ha ucciso il marito con 20 coltellate. La mattina dello stesso giorno era stata visitata dallo psichiatra dell’ospedale ed era stata dimessa.

Chiarisco subito che non voglio minimamente giudicare l’operato dello psichiatra che ha visitato la paziente, non so nulla sul caso e sarebbe molto scorretto dare un giudizio da tastiera, come purtroppo accade spesso in questo periodo. Mi interessa solo prendere spunto da questo episodio per affrontare un tema più ampio 

Riporto alcuni passaggi dell’articolo di Fanpage.it che titola così: “Com’è possibile che la donna che ha ucciso il marito non è stata ricoverata in psichiatria dopo le allucinazioni?” “A spiegarlo a Fanpage.it è lo psichiatra Massimo Clerici, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università degli studi di Milano Bicocca e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze della ASST di Monza.”

“È quindi possibile dimettere un paziente che arriva con allucinazioni e deliri?”

“Ci sono pazienti che arrivano in pronto soccorso con una generica richiesta di aiuto. Bisognerebbe capire se nel momento in cui il paziente è arrivato abbia dichiarato di avere allucinazioni o se fosse in uno stato delirante così grave da giustificare un ricovero. In questo caso è chiaro che lo psichiatra verrà valutato per le scelte che ha fatto. Può anche darsi che questa persona si sia presentata in pronto soccorso non dichiarando il suo stato psichico. Molte patologie psichiatriche, le più gravi in particolare, non permettono una coscienza di malattia da parte del paziente. Ci sono patologie, come la schizofrenia, dove i sintomi gravi vengono nascosti perché i pazienti non ne sono consapevoli. Sono psichiatra da quarant’anni. Ho visto tanti pazienti che arrivavano con una richiesta d’aiuto generica nascondendo una situazione grave ed è molto difficile con un colloquio riuscire a capire se il paziente presenti sintomi gravi come le allucinazioni o i deliri: ci vuole molto pazienza, capacità di valutazione ma anche molta fortuna. Molti pazienti non raccontano quello che stanno vivendo. Se ci nascondono la gravità di questa situazione, non è facile per noi.”

“È possibile che i farmaci non abbiano fatto subito effetto?”

“Non sappiamo da quanto tempo fosse stata modificata la terapia del paziente e che tipo di farmaco assumesse. Noi però in pronto soccorso lavoriamo con farmaci con effetto immediato che agiscono nel giro di poche ore. In caso di sintomi gravi possiamo intervenire con un farmaco intramuscolo o tramite flebo. Dopo aver tenuto il paziente in osservazione, possiamo notare che l’agitazione psicomotoria o i sintomi gravi vengano fortemente ridimensionati e controllati. Le terapie sono ad assorbimento rapido con farmaci ad alto dosaggio. Ci sono situazioni che possono richiedere un ricovero perché il farmaco va somministrato più volte, ma altri in cui il dosaggio riesce a sedare le crisi.”

Quindi, se il paziente non dice quello che ha, lo psichiatra non è in grado di fare una diagnosi? Ma stiamo scherzando? E allora l’identità dello psichiatra quale sarebbe? Quella di conoscere a memoria il DSM5 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e sapere tutto sulla neurobiologia, ma essere incapace di fare uno straccio di rapporto col paziente che permetta di comprenderlo come essere umano, malato quanto vuoi ma pur sempre umano? Invece, quando va bene, un sedativo e a casa!

Ora scusatemi, dirò cose un po’ noiosette, però ci servono per capire.

Già nel lontano 1941, lo psichiatra olandese Rumke coniò il termine praecox gefuhl – sentimento di schizofrenicità – con il quale indicava quella sensazione di estraneità e smarrimento del clinico quando aveva di fronte uno schizofrenico, un non riuscire a mettersi in contatto con lui, arrivando a formulare, mediante queste sensazioni, una diagnosi di schizofrenia, utilizzando la propria sensibilità, formazione e presenza nel rapporto, senza aver bisogno che il paziente dicesse cosa stava vivendo e a prescindere se nascondesse o meno la gravità della sua situazione. Parallelamente, nella Psicoanalisi, Paula Heimann introduceva il concetto di controtransfert, molto simile al praecox gefuhl e la Psicopatologia ci diceva, fin dai tempi di Jasper, che il vedere il paziente non è un vedere dei sensi ma un vedere della comprensione. C’era quindi una grande ricerca in psichiatria, in cui il paziente non era visto come un oggetto da osservare dall’esterno ma come un essere umano con cui fare un rapporto e da quel rapporto derivare quel sentire/comprendere fondamentale per fare diagnosi e possibilmente la cura.

Però accade che intorno agli anni ’70, dato che c’erano tante scuole con orientamenti teorici diversi che davano luogo a contrasti sulla metodologia diagnostica, per dare dignità medica alla psichiatria e permettere agli psichiatri di usare un sistema diagnostico comune, si arriva ai vari DSM e dal DSM3 si accantonano le varie teorie eziopatogenetiche (che cercano di dare risposte sulla causa della malattia) e quella che era una raffinata psicopatologia viene appiattita e ridotta al suo aspetto meramente descrittivo, a quello che vede il clinico. Infatti il DSM3 viene definito ateorico. Per cui ci si ritrova con una serie di sintomi, più o meno equivalenti, e la presenza o l’assenza di un sintomo determina questa o quella diagnosi, qualcosa che mi ricorda quando da bambino giocavo con le figurine: questa ce l’ho, questa mi manca! Il DSM5 è stato definito “la bibbia della psichiatria”, ovvero il principale per non dire l’unico riferimento per gli psichiatri nella formulazione della diagnosi nella pratica clinica. Da tener presente che nel DSM5 ci sono 541codici diagnostici!

È ovvio che questo approccio non è affatto ateorico perché disinteressarsi del vissuto del paziente e non cercare la causa che possa aver scatenato la crisi ma limitarsi a questa osservazione descrittiva dei sintomi è possibile solo se si ha una impostazione biologico/genetica, per cui la storia del paziente non mi interessa, devo solo individuare il farmaco giusto per riparare il “pezzo rotto”! E anziché occuparsi della mente, ci si occupa del cervello.

Tutto questo si traduce nell’impossibilità di comprendere perchè, una persona cosiddetta normale, con un comportamento e un funzionamento sociale adeguati, il tranquillo vicino di casa, possa arrivare a compiere gesti efferati.

E così siamo arrivati alla situazione paradossale odierna per cui, se da una parte si dimette il paziente grave che torna a casa e fa un omicidio, dall’altra si medicalizza tutto, basti pensare alla crescita esponenziale, negli ultimi tempi, dei bambini etichettati con l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività) o con disturbo esplosivo intermittente o autistici. E anche quando si tratta di bambini, si somministrano farmaci, senza minimamente comprendere che se quel bambino è così incazzato qualche motivo ci sarà e la rabbia è forse l’unica cosa che gli rimane per esprimere la propria ribellione ad un contesto violento, ivi compreso il neuropsichiatra. Parimenti non si riesce più a distinguere chi è sanamente triste perché è stato lasciato dalla ragazza ed ha bisogno di un SUO tempo (e non quello che stabilisce il DSM5) per elaborare la separazione, da chi è affetto da depressione, la risposta è sempre la stessa: farmaci. E potremmo andare avanti a lungo con esempi di questo genere.

Ci sarebbe ancora molto da dire sulla formazione, umana e professionale, dello psichiatra e sulle scuole di psicoterapia, ma avremo tempo per riparlarne.

Marco Michelini

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Foto scattata da: Sergi Montaner
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