DELEGARE LA PROPRIA VITA
Qualche giorno fa, guardando svogliatamente la tv, mi sono imbattuto nel film Papillon e ne ho approfittato. C’è una scena che mi ha colpito e che non ricordavo. Il protagonista, chiuso in isolamento, si addormenta e sogna di essere in un campo incolto con giudice e giuria in lontananza che lo accusano di aver “sciupato la propria vita” e la sua risposta è un sussurro “colpevole…colpevole…”. Mi è sembrata una scena emotivamente intensa e mi sono chiesto: che vuol dire “sciupare la propria vita”? Culturalmente ci sono degli obiettivi, quasi obbligati, a cui sentiamo di dover arrivare per non sentirci “fuori posto” o incompleti. Trovare un lavoro che ci faccia guadagnare bene, tanto da poter mantenere una famiglia, sposarsi e avere figli, avere una carriera di successo. Eppure, vediamo così tanti esempi, vicini o lontani, di chi ha seguito alla perfezione tutti i dettami culturali, eppure…
Ho pensato che l’accusa che quei giudici fanno al nostro protagonista fosse per altri motivi, ovvero di aver delegato ad altri la propria vita. Aspettare sempre il momento giusto che non arriva mai, una sicurezza (materiale) maggiore, farsi scegliere e mai scegliere come diceva De André. Vivere la propria vita senza avere il coraggio di dire certi no, o certi si, di puntare sul proprio sentire.
E mi vengono in mente i bambini e il loro essere scienziati, investigatori, ricercatori. Non stanno mai fermi, per loro il momento giusto è legato ad un sentire e non all’utile, la loro spontaneità è spiazzante. Io non credo a chi dice che siano in preda agli impulsi o disregolati e che sia l’adulto a doverli contenere/regolare. Anzi, proprio dopo rapporti deludenti con l’adulto che non comprende/vede la sua realtà interna, c’è il rischio che quel piccolo grande ricercatore si nasconda e diventi pauroso o che addirittura si perda, per poi dire, una volta cresciuto, di non essere mai stato curioso e che quel mondo interno fatto di affetti, di sensazioni “a pelle” in realtà non sia importante.
Nel film, il nostro protagonista sa di essere colpevole ma non si deprime, non si allea con i carcerieri, con la cultura o con chi vuole insegnargli a vivere. Sa che la verità della sua vita è al di là di quella scogliera e cerca di scappare dall’essere un adulto razionale, che imprigiona il bambino. Si getta dalla scogliera con la certezza che ce la farà, mentre il suo amico resta lì, accetta la sua condanna e diventa il proprio carceriere, forse non credendo più di poter ritrovare quel piccolo ricercatore o che sia mai esistito.
Mentre Papillon, libero tra le onde e verso la libertà, urla che è ancora vivo “alla faccia loro”. Si rivolge ai suoi carcerieri, ma vedendo quella scena ho pensato che quello fosse un uomo che lo urlava a tutti o a tutto quello che gli avrebbe impedito di essere davvero sé stesso, se avesse creduto che siamo fatti solo di quello che ci viene detto, consigliato, insegnato o imposto.
Mi viene in mente un altro film, più recente, dove un ragazzo americano, stufo della pressione sociale e famigliare decide di abbandonare tutto e tutti per vivere libero nella natura selvaggia. “Into the wild” appunto, ma la sua ribellione non va come lui vorrebbe. La sua sembra essere una ribellione cieca, perché pensa di essere libero andando via fisicamente, rifiutando tutto, anche i rapporti validi, senza pensare di dover cambiare sé stesso.
Quindi qual è la differenza tra i due?
Papillon fa quel sogno, che lo mette in crisi, sente che la colpa è anche la sua e cerca di uscirne. Non rifiuta il rapporto umano andando via dalla società come un asceta, come avviene in Into the wild. Si tiene il suo mondo interno e trova lì il coraggio di andar via.
Perciò penso che quel film, Papillon, ci parli di qualcosa che si è persi e che è di vitale importanza ritrovare. Come se avessimo ognuno una tavolozza di colori per dipingere il proprio mondo ma che, a seguito di delusioni profonde, più o meno visibili, questi colori si secchino convincendoci che quel che si aveva prima non fosse mai esistito. E poi ci si trova ingiustamente in prigione, come Papillon. Però lui sa di essere responsabile di qualcosa, sa di aver avuto una parte attiva in quella condanna. Si ribella come può, come un bambino che sa di aver avuto quei colori.
Allora quel salto, verso la libertà, sarà l’adolescente che non ci sta a diventare un adulto razionale? Vuole tenersi stretto una dimensione profonda con cui tutti noi nasciamo.
Perché alla fine cosa siamo senza quella?
“Colpevoli…colpevoli…”
Gianluca Ambrosini
Bellissima l’immagine della tavolozza a colori….siamo noi gli artisti e dobbiamo solo trovare il coraggio di disegnarci….
Ogni parola una perla é uno spunto per riflessioni profonde. Mi fa pensare al perché della psicoterapia…??? E forse ho capito ..per NON SCIUPARE la propria vita…
Parole davvero interessanti e di ispirazione. Posso confermare che dopo cinque anni di insegnamento i bambini davvero ti danno un’immagine del mondo differente, mi hanno insegnato ad essere una persona migliore. Mi auguro che tutti noi possiamo avere un vita con colori molto sgargianti, ad ogni pennellata c’è un sogno che diventa progetto, scelta di Vita. Ti leggo sempre con piacere. Grazie!
Un gran bell’articolo che ho letto più volte e ogni volta tanti pensieri e anche lacrime.
Bellissima questa lettura che hai dato. Grazie