ATYPICAL: alcuni spunti di riflessione sull’autismo
“…Probabilmente non ve lo aspettereste ma, in Antartide ci sono 37 vulcani che hanno un nome. Molti sono ricoperti da spesse lastre di ghiaccio. Eppure, spesso, sotto tutto quel ghiaccio, la lava crea delle cavità calde. Quindi, anche in quel paesaggio inesorabilmente freddo, si può trovare del calore nascosto…”, “…mi piace l’Antartide, è così silenzioso e poi li niente è davvero come sembra…”.
Le parole sono quelle di Sam Gardner, diciottenne protagonista della serie “Atypical”. Parole che mi hanno spinto a scrivere alcune riflessioni su un tema molto delicato e del quale ancora si sente molto dibattere. Esiste una classificazione per descrivere diversi tipi di autismo; nella diagnosi non vengono ignorati disturbi di origine affettiva e relazionale ma, sebbene non si conosca ancora la precisa natura, essa resta più a favore di aspetti organici e neuropsicologici.
La serie Netflix in questione affronta le problematiche di un ragazzo con diagnosi di autismo ad alto funzionamento. Ho apprezzato fin da subito che la creatrice e scrittrice Robia Rashid non parla mai di questo disturbo come organico e genetico; evidenzia invece, a mio avviso, il limite che si incontra nel considerare l’apprendimento di tecniche di comportamento come una cura psicologica e infatti si può notare come in Sam qualcosa si smuova invece (anche se in modo goffo e strampalato) soltanto quando è un rapporto umano profondo a costringerlo fuori da schemi prestabiliti. Questo aspetto mi ha colpito molto perché la serie americana resta fuori dalle teorie organicistiche molto in voga negli Stati Uniti.
A Sam viene diagnosticato questo disturbo all’età di quattro anni; ci si potrebbe aspettare che tutto, nella serie, giri esclusivamente intorno a questo ma non è così e se per molti questo è il punto debole del racconto per il quale le critiche non sono state sempre positive, per quanto riguarda me, il modo in cui si affronta il tema, è lo spunto che ho ritenuto maggiormente interessante. L’attenzione si pone esclusivamente sul vissuto di questo ragazzo.
Il protagonista racconta il tentativo di togliersi l’etichetta di atipicità/anormalità, cercando di vivere esperienze comuni a tutti gli adolescenti che si sperimentano nella vita attraverso i complicati rapporti di amicizia, amore e famiglia. Sam è certamente un bambino, prima, e un adolescente, dopo, che vive un grande malessere.
Apparentemente la serie non ci mostra niente di così diverso da quello che un comune ragazzo della sua età si trova a dover affrontare: episodi di bullismo, fare l’amore per la prima volta, la scelta del percorso di studi, incomprensioni e cambiamenti nei diversi ambiti della vita.
Ce la racconta però nella visione di un ragazzo autistico che ha perso quella vitalità, quello “stare bene” che se invece riusciamo a tenerci dentro, rende possibile affrontare anche le sofferenze e le delusioni più difficili; certamente non saremo mai immuni alla tristezza e ai dispiaceri, ma non rischiamo di perderci quel “sentire” che ci permette di restare integri e non andare in mille pezzi. Come invece accade a Sam.
Sam ha sempre cercato di tenere tutto costantemente sotto controllo, si affida ai suoi rituali per affermare le sue certezze e pensa che imparando le risposte corrette (con l’aiuto di liste di cose da fare e non fare, l’”apprendimento” razionale di cui parlavo all’inizio) possa stare bene. Lo fa perché ha paura delle cose che cambiano e si rifugia nella ripetizione di alcuni comportamenti per illudersi che tutto resti uguale; si capisce che ha bisogno che tutto rimanga come è sempre stato, perché doversi rendere conto che invece non è così lo costringe a modificare sé stesso e uscire dalla zona di comfort dove tutto è conosciuto, e che quindi non lo spaventa.
Sam ha un rapporto perfetto con le “cose” che lo circondano, ma se un oggetto può metterlo esattamente dove vuole e spostarlo a suo piacimento (nel tentativo di trovare in questo rassicurazione e punti fermi), si rende ben presto conto che con le persone è tutto diverso.
Si trova infatti a dover fare i conti con un abbraccio improvviso, un bacio rubato, un rifiuto doloroso, un luogo che non ha mai visitato, un sentimento che non ha mai conosciuto prima. Tutto questo lo mette profondamente in crisi e lo costringe a fare un movimento verso la sua realtà umana più profonda.
Lo fa cercando di razionalizzare ogni cosa, faticando a comprendere il senso delle parole e quindi anche la possibilità di fare ironia in situazioni serie e complicate. Non utilizza filtri per dire quello che pensa e la sua carenza affettiva interna non gli permette di modulare le parole, non rendendosi conto che questo può ferire le persone.
Incontra una ragazza; è per lei, che per la prima volta, riesce a mettere in secondo piano sé stesso e fare qualcosa per l’altro. Che non sia in questa occasione che sotto la freddezza dei ghiacciai, scopre quel calore di cui ci parla?
Cosa accade ad un certo punto della vita che costringe Sam a rifugiarsi in sé stesso e a proteggersi da tutto ciò che lo circonda? Dovremmo interrogarci sul perché nei primi anni di vita, dove da piccolissimi ci affidiamo all’amore e all’affettività degli adulti, qualcosa può non funzionare e un bambino può distaccarsi in questo modo dal mondo esterno, perdendo molto anche di quello che c’è dentro di sé.
Se Sam intuisce che è nei rapporti umani che può cercare la possibilità di stare meglio (come assistiamo nel corso dei vari episodi), possiamo pensare (forse dobbiamo) che è nel rapporto umano che ci si può ammalare?
Lui sente che nel rapporto con gli esseri umani la razionalità non è sufficiente ed è ben diverso dagli animali (in particolare dai pinguini a cui lui è particolarmente affezionato).
Alla fine Sam sa di dover accettare che tutto cambia, che deve separarsi dalla dipendenza che ha nei confronti della famiglia e provare a camminare da solo. Non si arrende ad accettare che la condizione in cui si trova non possa modificarsi, anche se qualcuno lo imprigiona in un “catalogo” di cose che in percentuale (secondo la statistica!), un ragazzo come lui riuscirà a fare o no nella vita. Lo fa cercando di sperimentare ogni situazione e affidandosi alle cure di una psicologa. Ovviamente su questa figura potremmo dire moltissimo, per come viene rappresentata in questa storia, ma tralasciando considerazioni in merito, quello che mi preme sottolineare è il fatto che si ritenga opportuno che il ragazzo si lasci aiutare da questo tipo di figura professionale e che anche nel rapporto affettivo con questo medico ritrova qualcosa di sé.
Guardando “Atypical” mi sono detta più volte quanto sia fondamentale che alcuni segni vengano interpretati fin da subito; se un bambino manifesta delle difficoltà è importante intervenire con tempestività, così da aiutare lui e chi ha intorno a comprendere che non c’è nulla di prestabilito, nessuna sentenza, niente di organico e che pertanto c’è la possibilità di stare bene e di curarsi.
Certamente non è affidata a questa serie la responsabilità di darci tutte le risposte. Ma mi sembrava una buona base per porci, ancora, qualche giusta domanda.
Valeria Verna
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